venerdì 12 dicembre 2014

Piccoli traslochi


Francisca era seduta sulla vecchia sedia sdraio nella terrazza della casa di campagna. Il marito era andato a fare un giro in bicicletta. I figli, ormai grandi, non seguivano più i genitori il fine settimana o durante le vacanze. Aveva finito un libro e non ne voleva cominciare un altro per continuare a godere  la storia appena letta. Pensò che poteva  controllare la posta elettronica, quindi rispondere i messaggi  o scrivere nuove mail,  seduta al tavolino del giardino, all'ombra del noce, ma si rese conto che aveva dimenticato il carica-batterie del computer portatile in città:
- Peccato! Oggi il giardino è bellissimo, tutto il prato tappezzato da piccole margheritine, che avrebbero fatto di sfondo ai mie scritti. Andrò a prendere carta e penna e scriverò a mano, come nei vecchi tempi. Disse a se stessa.
La campagna intorno alla casa si stava svegliando, gli uccellini avevano un gran daffare in quella mattina di maggio, in lontananza si sentivano le campane che annunciavano la prima messa nel vicino paese.
Andò in camera da letto a cercare della carta per scrivere. In fondo all'ultimo cassetto le apparvero le lettere di sua madre.
Portò il plico di lettere in giardino, si sedette sotto il  grande albero e cominciò a leggerne alcune. Le più antiche erano del 1977, anno in cui Francisca era partita dal suo paese.
Le missive dalla sua terra le arrivavano ogni settimana. La madre, con una bella calligrafia, le raccontava gli avvenimenti più importanti della famiglia e  volte le parlava di alcuni abitanti del paese. Le buste un po' ingiallite, alcune senza francobollo, perché erano stati staccati per regalarli a un vicino di casa collezionista filatelico, sembravano che aspettassero di essere di nuovo aperte.
Alla fine degli anni novanta la corrispondenza cartacea  tra madre e figlia era piano piano diminuita perché diventata quasi esclusivamente telefonica, salvo alcune rare cartoline inviate a Natale o a Pasqua. Una delle ultime lettere, datata nel 1995, scritta  in una carta rosa con delle fragoline  come frontespizio, era molto diversa dalle altre.
Di solito quando la madre scriveva una lettera lo faceva seduta in cucina, raccontando i piccoli aneddoti o i  grandi avvenimenti della loro vita quotidiana, ma parlava poco di se stessa. Invece la lettera delle fragoline era colma di pensieri intimi e cominciava così:

Cara Figlia:
Sono seduta sulla spiaggia guardando il mare, penso sempre intensamente a voi da quando siete partiti, sento nostalgia dei giorni passati insieme, ma soprattutto mi mancano tanto i vostri bambini. Mi sento sola nella nostra grande casa, tuo padre lavora tutto il giorno e io non smetto di rimuginare sui problemi famigliari.
Fino a qualche minuto fa i mie pensieri erano concentrati sulla famiglia di zia Lola. Non ti ho mai raccontato che zio Pepe, suo marito, non mi può soffrire. Lui non mi ha mai perdonato il fatto che io non avessi accettato la richiesta di matrimonio di Juaquín. suo fratello.
Juaquín era il giovane medico di Santa Tecla, quel piccolo paese che dista poco dal nostro. Lo ricordi? Lui era sempre gentile e affettuoso con tutti. Aveva una gran passione per il suo lavoro ed spesso si dimenticava di guardarsi allo specchio. I suoi capelli ribelli e i suoi indumenti fuori moda, gli davano un'aria svanita. Tutti mi dicevano che era un buon partito, ma io non ero sicura di amarlo. Pepe diventò, dopo la morte precoce di suo fratello, l'unico erede di una famiglia benestante, ma un po' strana. Oltre che gli anziani genitori, nella casa della famiglia Tordera, così venivano chiamati, vivevano quattro bizzarri zii  celibi. La gente mormorava che fossero molto avari, forse perché avevano comprato in paese molte case e tanti ettari di terra e non si sapeva bene con quali soldi. I più maliziosi dicevano che anticamente erano stati gli strozzini del paese. Lola, la sorella piccola di tuo padre, sposandosi con Pepe, sacrificò tutta la sua gioventù badando, uno alla volta, i quattro vecchietti.
Ma adesso Lola ha una bella casa, invece io no. Di questo ne sono un po' invidiosa.
Mi sento imprigionata, non ho mai potuto fuggire di questa nostra vecchia dimora.
Vorrei avere avuto una vita diversa, forse per questo, nonostante il dolore che ho sentito alla tua partenza, ora sono contenta e orgogliosa di te, per il coraggio che hai avuto nel lasciare la nostra terra.
Quando sei andata via sono stata molto male, piangevo tutti giorni. Una sera vennero a trovarmi i tuoi zii, ricordo che Pepe, invece di consolarmi, mi fece un gran male, dicendomi che se tu eri scappata via, abbandonando i genitori, era tutta colpa mia.
- Tu non hai carattere, mi diceva.
Lui faceva sparire in me l'allegria di avere dei figli che lottavano per aprirsi spazio nella vita. Mi schiacciava sempre, facendomi sentire che la mia vita era tutta sbagliata.
No ti ho mai detto che alla fine degli anni'50, ho sofferto molto, dopo aver scoperto di aver una rara malattia autoimmune. Anche in quell'occasione Pepe mi umiliava dicendomi che era tutta colpa mia, che ero troppo magra, che mi ero trascurata e soprattutto mi ripeteva che solo sapevo fare infelice gli altri. Ero incinta di tuo fratello, tu avevi appena un anno, mi ricordo che la levatrice del paese, mi diede il coraggio per affrontare la malattia, la nuova gravidanza e il parto.
Guardando il mare vedo la mia vita scorrere, avanti e indietro, cose fatte bene e cose fatte male.
Vorrei essere stata come mia sorella, lei ha un buon cuore, aiuta sempre gli altri, non è invidiosa come me e sempre è contenta di quello che ha.
Il via vai delle onde mi ricorda ossessivamente che ho trascorso tutta la mia vita nella casa secolare dei miei trisnonni, eppure da giovane, volevo andare a vivere altrove. Spesso mi vedevo mentre preparavo il baule e le grandi valige per il trasloco. Invece mi innamorai di tuo padre, che era del nostro paese. Lui mi faceva la corte, era bello, ma povero. Il giorno che l'ho visto ballare con un'altra, ho deciso che lo avrei sposato, anche se il mio sognato trasloco era in pericolo.
Tuo padre ed io, quando ci siamo fidanzati, speravamo, che dopo il matrimonio, saremo andati ad abitare da soli in una casetta, con un piccolo giardino e un pergolato, proprietà di tuo nonno paterno. Ma le cose si sono complicate, qualcuno della famiglia ha fatto cambiare idea a mio futuro suocero. Forse c'è stata la zampina di zio Pepe. No l'ho mai saputo.
Penso che avrei potuto cucinare  per voi dei piatti migliori.
Vorrei tanto poter ritornare al giorno nel quale siete arrivati, te lo dico con tutto il cuore, vorrei essere stata migliore, più affettuosa e più brava, sia come madre che come nonna.
In questi giorni di vacanza ti ho visto sempre presa dai bambini. Penso che non hai mai tempo per te stessa, ma ti sento felice e si vede che stai volentieri con i tuoi figli. Io invece, quando voi eravate piccoli, mi sentivo ingolfata di emozioni, di rabbia, di fallimento, di malattia, di dolore e soprattutto di fatica. Non riuscivo quasi a galleggiare. Volevo solo che passassero gli anni velocemente per vedervi già cresciuti.
Adesso mi sento più tranquilla dopo averti scritto.
Il mare è calmo, come ora lo è il mio spirito, la spiaggia è deserta, come a volte lo è il mio cuore. La schiuma bianca, che mi bagna i piedi, mi accarezza e mi sussurra, che lei non è la stessa acqua di prima, che tutto cambia, anche se noi rimaniamo nello stesso posto. Questo pensiero mi fa capire che in questi anni le cose intorno a me sono mutate, e che forse dovrei accontentarmi dei piccoli traslochi. Si, voglio passare questi ultimi anni accanto a tuo padre, accettando la mia vita, che non è stata come sognavo, ma che dopo tutto adesso non è così male.    
Scrivimi ma non citare questa mia lettera. Ti auguro tutta la felicità di questo mondo. 
Un abbraccio
Tua madre 

Appena finita la lettura, Francisca accarezzò la lettera, la mise tra le pagine del libro che aveva in borsa e pensò che sua madre aveva ragione, se la vita non ci ha regalato dei cambiamenti o noi non siamo riusciti ad aggrapparsi alle nuove opportunità, bisognava accontentarsi dei piccoli traslochi.













giovedì 4 dicembre 2014

La paciente catalana - La paziente catalana












Sólo un miembro del  personal del viejo hospital de Padova, el doctor Gardin, me trataba con cariño durante aquellos días calurosos de julio de tantos años atrás. Gracias a su apoyo y por supuesto al de U. no sucumbí en las arenas movedizas en que me hallaba.
Uno de los primeros días, durante la visita ginecóloga de rutina, me preguntó:
- Cosa  fa nella vita la  mi paziente catalana?
Desde que le había contado que era de un pueblo de la costa, cerca de Barcelona, a él le gustaba llamarme de esa manera.
- Soy profesora pero mi trabajo por ahora es provisional. Para poder vivir enseño en una academia. Sin embargo, después de mi licenciatura en  Italia y al ganar hace unos meses oposiciones para la enseñanza secundaria, espero que me den una plaza estable el año que viene.
- Ya sería hora  de que a los treinta años consiguiera cada mes un sueldo decente, le dije eso pensando en los cuatro chavos que ganaba en la escuela privada.  
Debe de ser interesante ser profesora y estar siempre en contacto con los jóvenes, me dijo él mientras me visitaba.
- A veces es agotador, sobre todo, cuando a los chicos no les gusta nada estudiar, pero a mí me encanta contribuir a que los demás aprendan. Ya desde pequeña iba muy a gusto al colegio, me gustaba ayudar a las niñas que no lograban hacer los deberes y sobre todo estaba pendiente de mi hermano, dos años menor que yo, a quien le interesaba mucho hacer deporte, escuchar discos y un poco menos estudiar.
El doctor Gardin tenía una voz cálida, que me hacía sentir bien, sobre todo cuando hablaba en su lengua con sus compañeros de trabajo.
El idioma de los habitantes de Padova, que muchas personas llaman dialecto, tiene algunas palabras parecidas al catalán, esos sonidos me acariciaban y me aliviaban un poco aquella larga espera.
Sin embrago en algunos momentos aparecía en mí un sentimiento que antes desconocía:
- ¿Por qué no le ha pasado nada a la mujer de Pietro, nuestro amigo, la que durante el embarazo se quejaba siempre, la que le dolía todo? ¿Por qué me ha tocado a mí y no a ella o a otra?
Luego me avergonzaba de mi envidia y borraba esos pensamientos.
Habían pasado casi diez días desde que me ingresaron. A U. se le iban acabando los días de vacaciones, por lo tanto decidió volver a Firenze al día siguiente.
Nos despedimos muy tristes, porque en esos últimos días habíamos descubierto que nuestro hijo, a pesar de todas las operaciones o terapias que iban a hacerle, no se curaría jamás.
A la mañana siguiente, la comadrona me visitó y tras auscultarme notó que el corazón del feto tenía un ritmo muy lento y lo más alarmante era que a veces desaparecía.
Llamó con urgencia al doctor Gardin, quien llegó enseguida. Lo noté un poco nervioso hablando con las enfermeras de su equipo. Me comunicó que iban a preparar el quirófano para operarme y quiso tranquilizarme diciéndome, que antes de la cesárea tendrían que depilarme, que no me  preocupara porque iban anestesiarme y que me haría un corte tan pequeño encima de la vulva, que no se me iba a notar, ni siquiera cuando me pusiera el traje de baño.
Una enfermera me trasladó a una sala pre-operatoria y allí me depiló con una brocha de jabón de afeitar y una cuchilla.
Entré en el quirófano bastante tranquila, quizás porque pensaba que ponía fin a aquella pesadilla.
Me dormí con la imagen de la barba del doctor Gradin, corta y un poco cana.
La voz de U. y la del médico se mezclaban, me llamaban por mi nombre para que me despertara. Yo les oía pero no conseguía entrar en contacto con ellos. Estaba en un espacio paralelo de donde no lograba salir.
Me tocaban y me movían, pero yo no podía reaccionar.
Creo que duró bastante tiempo esa vivencia en aquel limbo.
- El niño está vivo y duerme tranquilo. Se parece a ti. Me dijo U. sacudiéndome.
- Brava la mi paziente catalana, dijo el doctor Gardin, cuando abrí los ojos. Su cara denotaba alivio, pues había temido que no me despertara. Eso nos lo dijo al cabo de unos días.
Me trasladaron a otro edificio moderno, donde se hallaba la Maternidad. Recuerdo con dolor mi horas pasadas en una pequeña habitación, junto a una puérpera que lloraba siempre, porque su niño no mamaba.
Yo le contaba mi desgracia, para consolarla:
- Tú tienes poca leche, a mí me la tienen que cortar porque nadie podrá mamar de mis pechos, tú tienes un hijo sano, yo en cambio he parido un niño que morirá dentro de poco. No te desesperes, tu niño es gordito, el mio pesa un kilo y medio y ni siquiera logra respirar por sí mismo.
- Pero mi hijo también se morirá si no me llega más leche para amamantarlo. Decía sollozando.
Para distraerme me ponía a leer uno de los libros que había llevado conmigo, ya que no podía moverme de la cama por la herida.
Cada día venía a verme U., sentado a mi lado me hacía compañía contándome los detalles del niño en su cuna térmica, mientras mi vecina lloriqueaba sin cesar.
Al tercer día con una silla de ruedas U. me llevó a ver a nuestro hijo, en una sala donde habían muchas incubadoras.
Primero vi su cabeza redonda y el rostro delicado, luego su cuerpo delgado, casi raquítico; por último me fijé en los pies. Eran preciosos, parecían más rechonchos que el resto del cuerpo. Llevaba un pañal y una camiseta de algodón amarilla que le quedaba muy grande. Creo que si lo hubiéra visto desnudo hubiera sido más doloroso para mí. Respiraba a través de unos tubos y algunos goteros le ayudaban a sobrevivir.
U. y yo acariciábamos el cristal de la incubadora silenciosos. Cada uno peleando con sus ánimos contradictorios. No sabíamos qué esperar,  que el niño luchara para vivir unos meses o que muriera, ya.
Los pediatras habían sido muy claros:
- No hay nada que hacer, imposible una operación o un trasplante de corazón,  pues al tener muchos órganos afectados resultan comprometidas muchas funciones de primer orden. Podrá sobrevivir unos días o unos meses, quien sabe.
El doctor Gardin vino a verme, a pesar de que ya no estuviera ingresada en su área de riesgo gestacional y me animó mucho con sus palabras.
Nos dijo que  estaba orgulloso de nosotros, porque estábamos superando con valor y fuerza esa tremenda adversidad del destino, que  estaba seguro de que tendríamos otros hijos sanos y que volveríamos a ser felices, por último nos aconsejó que esperáramos unos dos años antes de un nuevo embarazo.
Recuerdo que aquel día empecé el primer libro de la ricerca del tempo perduto de Proust. Lo recuerdo como un libro amable  y de buena compañia, quizás porque los detalles de la novela me distraían, quietud y lentitud me abrazaban, sin embargo sólo hoy  mis manos  han  logrado  abrirlo de nuevo.
Cada día me estaba recuperando más, a los ocho días del parto decidieron darme de alta.
El doctor Gardin, el último día de mi estancia en el hospital, vino a despedirse y fue muy amable con nosotros.
Giacomo, ese fue el nombre que le pusimos a nuestro hijo, tenía que seguir en la incubadora, por consiguiente decidimos quedarnos un día más en Padova en casa de un amigo, luego tendríamos que turnarnos para estar junto al niño.
Mientras estábamos comiendo un plato de pasta muy sabroso, que nuestro amigo nos había preparado, nos llamaron por teléfono diciéndonos que Giacomo había fallecido.
Recuerdo poco aquellos momentos: funeraria, ataúd blanco, coche fúnebre, desplazamiento en la autopista hacia Firenze, iglesia, funeral, cementerio y sepultura.
Fue todo tan rápido que no llegamos a avisar al doctor Gardin de la muerte de nuestro hijo.
Al cabo de unos meses volvimos a Padova, para que nos hicieran análisis y pruebas para investigar sobre nuestros genes.
Antes de ir a la estación para volver a Firenze, pasamos por el viejo hospital, pero el doctor Gardin no estaba aquel día de guardia y no pudimos verle. Le dejamos una nota.
Nunca más supimos nada él, sin embargo me hubiera gustado contarle que tenía razón, cuando nos decía que habríamos tenido otros hijos y que habríamos sido felices de nuevo. 

La paziente catalana
Il Dottor Gardin fu l'unico membro del personale del vecchio ospedale di Padova, che mi trattò con affetto in quei giorni caldi di luglio di tanti anni fa. Grazie al suo sostegno e naturalmente a quello di, U., mio marito, non sono sprofondata nelle sabbie mobili in cui mi ero impantanata.
Uno dei primi giorni, durante la visita ginecologica di routine, mi chiese:
- Cosa fa nella vita, la mia prima paziente catalana ?
Da quando gli avevo detto che ero nata in una città costiera vicino a Barcellona, gli piaceva chiamarmi così.
- Sono un'insegnante, ma il mio lavoro per ora è provvisorio. Tuttavia, dopo la mia laurea italiana e dopo aver vinto l'ultimo concorso per le scuole superiori, spero di entrare di ruolo l'anno prossimo.
Poi ho aggiunto:
- Sarebbe bello a trenta anni avere uno stipendio ogni mese, sarebbe l'ora. Pronunciai queste parole pensando al lavoro sottopagato che che mi era toccato svolgere nelle scuole private, in tutti quegli anni.
- Deve essere interessante fare l'insegnante, rimanere sempre a contatto con i giovani, mi disse lui mentre mi stava visitando.
- A volte è faticoso, soprattutto quando i ragazzi hanno problemi e quindi lavorano poco, perché pensano di non farcela. Da sempre mi è piaciuto aiutare e collaborare con gli altri:  da piccola,  davo una mano alle compagne che non erano riuscite a fare i compiti, ma soprattutto aiutavo mio fratello, due anni più giovane di me, che era molto interessato allo sport, ad ascoltare musica e un po' meno a studiare.
Il dottor Gardin aveva una voce calda che mi faceva sentire bene, soprattutto quando parlava nella propria lingua con i suoi colleghi.
La lingua degli abitanti di Padova, che molte persone chiamavano dialetto, aveva delle parole simili a quella della mia lingua madre. Quei suoni mi accarezzavano e mi alleviavano un po' la lunga attesa.
A volte nasceva in me un sentimento, che prima mi era totalmente sconosciuto:
- Perché  questo dramma non è  capitato alla moglie del collega di U. che durante tutta la gravidanza stava male e si lamentava di tutto? Perché è toccato a me e non lei o un'altra donna?
Poi mi vergognavo della invidia che sentivo e cancellavo quei pensieri.
Erano passati quasi dieci giorni da quando ero entrata in quel ospedale. U. stava finendo i giorni di ferie, quindi aveva deciso, suo malgrado, di tornare a Firenze la mattina dopo.
Quella sera ci siamo lasciati molto tristi, perché in quegli ultimi giorni avevamo scoperto che nostro figlio, nonostante tutte le operazioni o le terapie che avrebbe dovuto affrontare alla nascita, non aveva speranze di vita.

La mattina presto, l'ostetrica mi ha visitato e dopo avermi auscultata ha notato che il cuore del feto aveva un ritmo molto lento, ma la cosa più allarmante è che il battito a volte scompariva.
Ha chiamato di corsa il dottor Gardin, il quale è arrivato subito. Ho notato che era un po' agitato mentre parlava con le infermiere. Mi ha fatto subito sapere che stavano preparando la sala operatoria per un taglio cesareo. Poi ha voluto rassicurarmi dicendomi:
- Prima del parto cesareo dobbiamo depilarle la vulva, non si deve preoccupare perché l'anestesia sarà totale. Il taglio sarà così piccolo che potrà indossare, senza che si veda la ferita, il costume da bagno.
Un'infermiera mi ha accompagnata nella sala pre-operatoria e lì mi ha depilato con sapone da barba e rasoio.
Sono entrata in sala operatoria piuttosto tranquilla, forse perché pensavo che, nel bene o nel male, sarebbe finito quell'incubo.
Mi sono addormentata guardando la barba brizzolata del dottor Gardin.
Dopo, ho un ricordo nebbioso della voce di U. e quella del dottore, che mi chiamavano per svegliarmi. Li sentivo ma non riuscivo a entrare in contatto con loro.   Ero in uno spazio parallelo, da dove non potevo uscire.
Mi toccavano e mi scuotevano, ma io non riuscivo a reagire. Penso che l'esperienza in quel limbo sia durata abbastanza a lungo.
- Il bambino è vivo e dorme tranquillo. Assomiglia a te. Mi ha detto U. muovendomi il torace con vigore.
- Brava la mia paziente catalana, ha aggiunto il dottor Gardin, appena ho aperto gli occhi.
Il suo volto manifestava sollievo. Aveva temuto che non mi svegliassi. Così mi ha detto qualche giorno dopo.
Sono stata trasferita ad un altro edificio moderno, nel reparto maternità. Ricordo con dolore le ore trascorse in una piccola stanza, accanto a una giovane donna che sempre piangeva, perché temeva di non poter allattare  il suo bambino,  si era convinta di non avere latte.
Gli ho raccontato la mia storia sfortunata per consolarla:
- Tu forse hai poco latte, ma vedrai che sarà sufficiente a tuo figlio; pensa a me che hanno dovuto bloccarmelo perché non ci sarà nessuno a succhiare i miei capezzoli; il tuo è un bambino sano, ma io ho partorito un figlio che morirà tra poco. Non disperare, il tuo bambino è paffuto, il mio pesa solamente un chilo e mezzo e non può neppure respirare da solo.
- Ma mio figlio morirà per colpa mia. Ripeté quella frase diverse volte, mentre singhiozzava.
Non riuscivo a consolarla, quindi per distrarmi ho deciso di leggere uno dei libri che avevo portato con me, dato che ancora non potevo muovermi dal letto per la recente ferita.
Ogni giorno U. veniva a trovarmi, seduto accanto a me mi teneva compagnia,  mentre la mio vicina piagnucolava incessantemente.
Poi  lui  mi raccontava del nostro bambino, il quale si trovava in un altro reparto.
Il terzo giorno, con una sedia a rotelle U. mi portò a vedere nostro figlio, in una grande stanza dove c'erano molte incubatrici.
La prima cosa che ho visto di lui è stata la testa rotonda e il viso delicato, poi il suo corpo esile, quasi denutrito; Infine ho notato i piedi. Erano belli, sembravano più grassocci rispetto al resto del corpo. Indossava un pannolino e una camicia di cotone gialla, troppo grande per lui. Penso che se fosse stato nudo, vederlo sarebbe stato più doloroso per me. Respirava attraverso dei tubi e alcune sonde lo aiutavano a sopravvivere.
Entrambi abbiamo incominciato ad accarezzare il vetro dell'incubatrice in silenzio. In  sciascuno di noi si scontravano i propri stati d'animo contraddittori. Non sapevamo cosa aspettarci: che il bambino lottasse per vivere un paio di mesi o che morisse subito.
I pediatri erano stati molto chiari:
- Niente da fare, dimenticatevi degli interventi chirurgici o di un eventuale trapianto di cuore. Avendo diversi organi anomali e altri atrofizzati, sono compromesse molte funzioni di primo ordine. Potrà sopravvivere pochi giorni o addirittura alcuni mesi, nessuno lo può sapere.
Il dottor Gardin venne a trovarmi, anche se non ero più nel suo reparto gravidanze a rischio e mi aiutò molto con le sue parole.
- Sono fiero di voi perché avete saputo superare con coraggio e forza la tremenda avversità che il destino vi ha riservato, sono sicuro che avrete altri figli sani e che sarete di nuovo felici.
Infine, ci consigliò di aspettare circa due anni prima di un'altra gravidanza.
Ricordo che quel giorno ho iniziato il primo libro della ricerca del tempo perduto di Proust. I dettagli minuziosi della storia mi davano sollievo e mi distraevano. E' stato un libro amabile e di buona compagnia, il silenzio e la lentezza di quelle ore di lettura, mi abbracciavano. Ma fino ad oggi le mie mani  non hanno aperto quel libro.
Ogni giorno che passava mi riprendevo sempre di più. L'ottavo giorno dopo il parto mi hanno fatto uscire dall'ospedale.
Il dottor Gardin, l'ultimo giorno della mia degenza, è venuto a salutarci e come sempre è stato molto gentile con noi.
Giacomo, questo è il nome che abbiamo dato a nostro figlio, non poteva vivere fuori dell'incubatrice, quindi abbiamo deciso di restare insieme un altro giorno a Padova a casa dell'amico che aveva ospitato U, poi alternandoci,  sarebbe rimasto uno di noi in quella città, Mentre stavamo mangiando un piatto di pasta asciutta, che il nostro amico  ci aveva preparato, abbiamo ricevuto una telefonata, che ci annunciava che Giacomo era morto.
Ricordo poco quei momenti: gli addetti dell' impresa funebre, la bara bianca, il carro funebre, il trasferimento in autostrada a Firenze, la chiesa, il funerale, il cimitero e la sepoltura.
E' andato tutto così veloce che ci siamo dimenticati di avvertire il Dottor Gardin della morte di nostro figlio.
Dopo un paio di mesi siamo tornati a Padova, per fare delle analisi e indagini genetiche.
Prima di recarsi alla stazione a prendere il treno per Firenze, siamo andati al vecchio ospedale, ma non abbiamo trovato il dottor Gardin, quindi gli abbiamo lasciato un biglietto.
Non abbiamo saputo più niente di lui. Mi sarebbe piaciuto avergli potuto dire, che aveva proprio ragione quando ci aveva assicurato che avremmo avuto altri figli sani e che saremmo stati di nuovo felici.






domenica 16 novembre 2014



Aquella tarde Juana estaba sentada al lado de la ventana, iba bien abrigada, con un chal de lana echado en la espalda, jersey grueso, pantalones vaqueros, calcetines de lana y zapatillas mullidas.
Había tenido la gripe por eso estaba un poco destemplada y no se atrevía a salir. Hacía un par de días que no paraba de toser, sentía escalofríos y mareos, sin embargo tenía sólo un poco de décimas de fiebre, por lo que pensó que era solo un gran resfriado, pero a medida que pasaba el tiempo se dio cuenta de que era una cosa más seria y de que debía quedarse en casa y dejar lo todo por hacer.
Apartó las cortinas, estaba anocheciendo, vio sólo su imagen reflejada en los cristales, luego sus pensamientos se trasladaron a otra ventana, la del local donde había ido la noche anterior.
Había quedado con unas amigas que veía poco, por eso no quiso postergar la cita y decirles que se encontraba mal. Se fue bien abrigada a la cafetería, entró en una gran sala casi desierta y buscó con su mirada a las tres mujeres que estaban en la mesa del fondo, junto a la ventana.
Al sentarse empezaron a hablar todas a la vez, como si les faltara tiempo. Al cabo de una media hora Juana miró el móvil, luego contempló la ventana que daba a un patio interior y pensó que no servía para mucho pues dejaba entrar poca luz, pero era grande y daba desahogo al salón. Volvió a mirar a sus amigas y tuvo muy claro que había que cambiar el rumbo, por eso les dijo:
- Dejemos ese tema y hablemos de otra cosa.
- Espera, espera ya falta poco, dijo Irene, insistiendo aún más en saberlo todo.
“ ¿Es el virus que me ha estropeado la tertulia o soy yo quien me vuelvo menos tolerante?” Se dijo Juana.
Le encantaba juntar a sus amigas, pero aquel día estaba un poco decepcionada, quizás porque cada una iba hablando por su cuenta, casi sin escuchar a las demás, pero eso pasaba siempre; lo que en realidad le molestó fue la frase inicial de Irene:
- ¿Qué tal va tu peque, Amelia, ya ha terminado los estudios?
- Qué va, su lentitud me mata, me gustaría que fuera rápida como el mayor de Clara.
Las cuatro mujeres tenían hijos de misma edad: unos estaban terminando la carrera, otros hacían prácticas en un hospital o estudiaban para oposiciones, algún que otro se había ido una temporada al extranjero.
Juana escuchó atentamente los inconvenientes que iban saliéndole a una de las hijas de Amelia, que era muy meticulosa y por eso tan lenta o las peripecias para encontrar trabajo de un de los hijos de Clara, quien era según su mamá, era muy inteligente, pero con poco nervio. Luego suspiró y pensó que nunca estábamos contentas del todo.
No le apetecía contar nada de sus dos hijos, de quienes ella en aquella época estaba orgullosa, porque ambos estaban empezando a abrirse camino en el mundo del trabajo.
Cuando le preguntaron por ellos fue muy escueta y dijo sólo:
- Están bien, la mayor sigue trabajando en el extranjero y el pequeño hace prácticas en una empresa de la ciudad.
La camarera les trajo bebidas y unas tapas que devoraron en un santiamén; mientras comían seguía saliendo de sus bocas palabras de alago, orgullo y satisfacción. Juana no tomó casi nada, solo un vaso de cerveza.
Juana se sacó las gafas de vista cansada y se puso a mirar bien a sus amigas, era cómo si cada una intentara salir de sus miserias y se refugiara en los triunfos de los hijos. Quizás ella también lo hacía alguna vez y no se daba cuenta, puede que fuera una cosa natural que repiten y siguen repitiendo desde siglos todas las madres del mundo.
”¿Por qué hoy eso me incomoda tanto?” Se preguntó.
Le hubiera gustado que las amigas le hubieran trasmitido algún detalle bello de sus vidas o quizás una adversidad, pues tenéis que saber que a Juana se le daba bien consolar a la gente. Le encantaba transmitir todo lo positivo que sentía en su interior: apreciaba la belleza de la vida, las pequeñas cosas cotidianas, estaba contenta de lo que tenía, le interesaban todas las personas, quienes quiera que fueran, evitaba las riñas y los enfados, sin embargo a veces pensaba que que su filosofía de vida estaba equivocada, pues notaba que casi todo el mundo huía de la rutina, queriendo irse siempre de vacaciones, viajes o planeando nuevas mudanzas.
El virus le daba flojera y no tuvo la fuerza para que sus sensaciones dominaran la mesa y lograran cambiar el asunto de la conversación.
Al cabo de una hora las mujeres por suerte dejaron de hablar de exámenes, becas y empleos, porque fueron a parar dentro de otras historias y el el hilo de la madeja se fue anudando, pero Juana seguía sin lograr prestar atención y su vista se iba perdiendo hacia la ventana postiza.
Cuando volvió a dejar de mirar la ventana de dio cuenta de que estaban comentando que el novio de la hija mayor Amelia tenía una enfermedad sanguina y que al herirse se le producían grandes hemorragias, luego hablaron de una de las tantas novias del pequeño de Irene, una finlandesa que veía al enamorado sólo en París dos veces al año, al final salió el tema de los consuegros de Clara que vivían como anacoretas en una pequeña isla de las Canarias y la conversación fue languideciendo hasta que Irene, la más curiosa acerca de los hijos ajenos, miró el reloj y dijo:
- ¡Qué tarde es, tengo que irme!
Mientras se ponía el abrigo, Juana le preguntó:
- ¿Cómo estás Irene?
Sin dar muchos detalles y de prisa como si no quisiera hablar de ello, les dijo que estaba contenta pues ya habían pasado cinco años desde que la operaron de cáncer de mama y que finalmente podría dejar los medicamentos que le daban muchos efectos secundarios.
- Menos mal que Matilde ha terminado la carrera y se está especializando en oncología, con ella en casa me siento más tranquila
Al salir del local, Irene desapreció a la vuelta de la esquina, Clara y Amelia se dirigieron con ella hacia la plaza. Hacía frío y las tres andaban despacio bien cubiertas con bufanda, gorro y guantes por las calles desiertas y brumosas. Juana estaba un poco mareada y deseaba volver a casa, pero también quería pasear con sus amigas, pues apreciaba mucho que hubieran querido acompañarla.
Se habían conocido muchos años atrás, cuando los niños iban al parvulario, se habían ayudado mutuamente haciendo de canguro y cuidando a los peques, consolándose cuando tenían problemas con maridos, suegras o cuñados, habían organizado fiestas e incluso salido de vacaciones.
-¿ Por qué hablamos siempre de nuestros hijos? Ya no nos pertenecen como cuando eran pequeños, dejémoslos en paz. Quiero saber cómo estáis vosotras, les dijo Juana.
Clara se animó a contarles que había días en que estaba fatal pues se sentía muy sola, pero que poco a poco iba superando la separación. Ya no sentía tanta rabia por su ex- pareja, el odio se había transformado en pena.
Luego terminó diciendo que la única cosa buena era que se sentía muy unida a su hija, quien la animaba y apoyaba sin cesar.
- No sé lo que haría sin ella, espero que no se vaya a vivir lejos de mí.
Amelia, la más dicharachera, habló de la depresión del marido, de las pastillas que tomaba y de las dejaba de tomar. Les dijo que en aquel momento él estaba de baja y no se levantaba de la cama durante todo el día, por eso luego trasnochaba pasando horas y horas en frente del ordenador fumando sin cesar.
- Lo peor es que ya no le hago caso a sus rarezas, me he ido acostumbrando.
Luego añadió que sus dos hijas estaban muy encariñadas con ella y que por ahora no querían irse a vivir por su cuenta y que se lo agradecía muchísimo, pues no lograba imaginarse una vida sin ellas.
- Yo quiero deciros que estoy muy contenta de que me que hayáis contado trocitos de vuestra vida, y por supuesto acompañado a casa les dijo Juana.
Besó y abrazó a las amigas cuando llegaron en frente de su casa.
La imagen de las dos mujeres que se despedían de ella en la puerta de casa se fundió con la suya en los cristales de la ventana. Volvió la vista hacia la mesa, cogió un bolígrafo y escribió en un cuaderno:
Hay mujeres quienes están pendientes de los hijos toda la vida porque creen que es lo mejor, por eso viven compenetradas con ellos, otras en cambio quieren que se vayan de casa y que decidan por su cuenta. No es fácil para una madre decidir cuál de los dos caminos hay que seguir, a veces la inercia o las circunstancias llevan por un lado o por otro, otras veces la buena suerte hace descubrir atajos para lograr pasar libremente de una senda a otra.




La permanente - La permanente



Anoche mi marido invitó a una pareja de amigos a cenar. Hacía algunos años que no coincidíamos con ellos.
Nuestro invitado al verme, tras abrazarme me dijo:
- Te veo muy guapa.
- Pues mira que, precisamente en esos días, no me acabo de gustar, no se si cortarme el pelo o dejármelo crecer, le dije yo espontáneamente.
- Si ese es tu único problema, quiere decir que estás la mar de bien.
Era verdad, estaba pasando una buena temporada en armonía con mi pareja, con ganas de experimentar cosas nuevas en el trabajo y satisfecha con nuestros hijos que ya eran independientes y vivían fuera de casa.
Sin embargo sentía un malestar raro, que ya otras veces había tenido. En aquellas ocasiones percibía mis cabellos más lánguidos y sobre todo me sentía más insegura.
Llevaba días mirándome al espejo detenidamente. Mi pelo, que suelo llevar siempre bastante corto y teñido de rubio, iba creciendo.
- Quiero ir a la peluquería antes de Navidad, sólo para que me arreglen el corte, pero sin que me rapen. Me decía, echándome la pequeña melena, si te esta manera se podía llamar a los pocos mechones que cubrían mi cuello.
Desde pequeña que me encantaban las trenzas, los moños o el pelo recogido y por consiguiente las greñas despeinadas a los lados de la cara, pero pocas veces había logrado que adornaran mi cabeza.
Suelo ir casi cada dos meses a una peluquería, cuyo peluquero alegre y cumplimentero, pero muy profesional, me arregla el pelo.
Siempre me dice, cuando yo le comento mi intención de dejarme un poco de melena:
- Vamos a escalarte el pelo para que te coja forma.
Luego con las tijeras en la mano sigue diciéndome con su voz cálida:
- Tus cabellos son fuertes y sanos, pero tan finos que no puedes llevarlos largos, pues al cabo de unas horas se te quedarían aplastados en la cabeza.
Son casi las mismas palabras que pronunciaban, primero mi madre, todas las santas semanas cuando de pequeña, me lavaba el pelo, luego Ramona y todas los peluqueros que a largo de los años me habían peinado.
Después de pensar en todo ello, mientras mi marido y los invitados miraban en la pantalla del ordenador unas fotos y unos mapas de una  zona del Chianti, se me apareció un recuerdo que  casi había  olvidado:
El día antes de Navidad a principios de años de sesenta, mi madre intentó arreglar a su manera el problema de mi cabellera fina, llevándome casi a rastras a su peluquería. Le dijo a Ramona, la dueña, que me ondulase los cabellos con una permanente y se marchó a casa, dejándome rodeada de mujeres curiosas, quienes me observaban descaradamente. Estaban sentadas muy tiesas, los cascos de  los secadores cubrían sus cabezas, pero sus ojos se volvían sin cesar hacia mí. Por aquel entonces yo tenía unos seis años.
Mi permanente fue una cosa muy larga. Primero, me hicieron esperar sentada en una butaca. La chica que lavaba el pelo a las señoras era muy amable, me miraba y me sonreía, como si quisiera decirme, pobrecita. Ramona, no se ocupó de mí durante mi larga espera. Pude descubrir que era una mujer muy habladora y bastante chismosa.
Su marido, quien vino al salón a traerle unos paquetes, era mucho más bajito y enclenque que ella.
Cuando me tocó la tanda, la chica  me colocó unos cojines en el asiento y me puso con delicadeza una peinadora blanca ajustada en el cuello, luego un lienzo grueso para protegerme el vestido. Ramona que era algo más brusca empezó arrollándome pequeños mechones con unos carretes de madera, luego los fijó con unas tiras elásticas.
Mientras hacía la labor me decía, que yo estaría condenada a hacerme la permanente toda la vida, como llevaba haciéndolo mi madre.
Puso poco cuidado en la tarea, pues al terminar, la cabeza me dolía por culpa de los tirones que me había dado. Luego con una especie de pincel me puso un potingue helado y pegajoso, que olía mal. Ramona me dijo que aquel líquido hacía efecto poco a poco, por lo que tendría que esperar más de una hora. Hallándose la peluquería bastante cerca de nuestra casa, me envolvieron la cabeza con una toalla y me dijeron que me fuera  a casa.
Recuerdo mi enfado y mi bochorno al cruzar la plaza principal del pueblo con aquellos rulos en la cabeza.
Al llegar a casa en seguida me puse a llorar sentada en una silla cerca de la ventana que daba al patio. No quería volver a ver a Ramona en toda mi vida, solo deseaba salir de aquel enredo.
Mi madre me convenció para que volviera a la peluquería, diciéndome que si no me hubieran enjuagado el líquido de la permanente, mis cabellos se habrían quemado.
Volví angustiada al establecimiento de Ramona, quien viendo mi cara de pocos amigos me sacó los rulos con más delicadeza.
Me miré al espejo con el pelo rizado, más que una niña vi a una mujer enana. Llorando le dije a Ramona en voz alta, para que lo oyeran  todas aquellas cotillas, que me espiaban bajo los cascos, que no iba a volver jamás a pisar su peluquería.
Mantuve la promesa y nunca más volví a entrar en el establecimiento, que siguió abierto hasta que al cabo de unos años, al morir Ramona, lo cerraron.
Por suerte el día de Navidad me olvidé de mis cabellos y lo pasé bien jugando con mis hermanos y primas.  
Recuerdo que antes de aquella permanente desventurada, mi madre cada mañana me hacía dos trenzas, que a mí me encantaban. Y a veces me decía:
- Uniendo tus trenzas no llegaríamos ni al grosor de una trenza de tu prima.
-¿Por qué no le gustaban mis trencitas? Me preguntaba yo, sin darle a ello demasiada importancia y sin saber lo que me iba a ocurrir en la peluquería de Ramona.
Sólo de mayor, entendí que mi madre estaba ilusionada con mi permanente  porque  quería que yo estuviera guapa durante las fiestas, pues ella también tenía el pelo sutil y había sufrido por ello.
A veces se me ocurre imaginar a  mi madre adolescente mirándose al espejo: 
Veo a una chica que no se da cuenta de la belleza de sus ojos oscuros como el azabache, de su tez clara y de sus facciones delicadas. Ella nota sólo sus cabellos sin vigor.
Luego la veo ya jovencita, primero un poco cohibida y luego contenta, el primer día que fue a la peluquería de Ramona para que su cabello tuviera una ondulación que se le mantuviera durante largo tiempo.
Dejé de pensar en mi madre y en la permanente para dedicarme a los invitados.
La cena fue muy amena y durante la sobremesa hablamos de nuestros viejos tiempos de estudiantes, cuando vivíamos juntos.
- ¿Te acuerdas de la peluquera de S. Polo? La que te cortó el pelo escalado de forma tan rara. Dijo nuestra invitada, sonriendo.
Nos pusimos los cuatro a reír y desde entonces  mi  malestar desapareció completamente.

La permanente

Ieri sera mio  marito ha invitato due amici a cena. Erano alcuni anni che non ci vedevamo, ma conoscevamo quella coppia da molto tempo.
Il nostro ospite guardandomi, dopo avermi salutata, mi ha detto:
- Sei molto carina.
- Beh, proprio in questi giorni, non mi vedo molto bene, non so se lasciarmi crescere i capelli o tagliarmeli, gli ho detto spontaneamente.
- Se questo è il tuo unico problema, significa che stai molto bene.
Era vero, stavo trascorrendo un buon periodo in armonia col mio compagno, al lavoro avevo voglia di esperimentare cose nuove ed ero soddisfatta dei nostri figli che erano già indipendenti e vivevano  per conto proprio.
Tuttavia sentivo una strana inquietudine, che qualche altra volta avevo già percepito. In quelle occasioni vedevo i miei cappelli più sottili e mi sentivo particolarmente insicura.
Erano diversi giorni che mi guardavo da vicino allo specchio. I miei capelli, che di solito  porto piuttosto corti e tinti di biondo, stavano crescendo.
- Andrò dal parrucchiere prima di Natale solo per ritoccare il mio taglio, ma non voglio che mi accorcino troppo i capelli. Mi sono detta tirandomi su la mia chioma, se si possono chiamare così le piccole ciocche che mi coprono appena il collo
Fin da bambina ho amato le trecce, le crocchie o i capelli raccolti e quindi mi piacevano i capelli un po' spettinati che cadevano ai lati del viso, ma che raramente ornano la testa.
Vado circa ogni due mesi da un parrucchiere, allegro e complimentoso, ma molto professionale, il quale mi aggiusta via via il taglio.
Mi dice sempre, quando le faccio sapere la mia intenzione di far crescere i capelli:
- Te li scaleremo un po' e cosi ti prenderanno forma.
Poi con le forbici in mano continuava a dirmi con la sua voce calda,
- I tuoi capelli sono forti e sani, ma così fini che non puoi permetterti di portarli lunghi, perché dopo poche ore ti rimarrebbero schiacciati alla testa.
Sono quasi le stesse parole pronunciate, prima da mia madre, tutte le sante settimane in cui da piccola mi lavava i capelli, poi da Ramona e da tutte le altre parrucchiere che nel corso degli anni mi hanno messo a posto i capelli.
In mezzo a tutti quei pensieri, mentre i nostri ospiti e mio marito guardavano al computer delle fotografie e delle mappe topografiche di una zona del Chianti, mi sono apparssi dei ricordi che avevo quasi dimenticato:
Il giorno prima di Natale dei primi anni sessanta, mia madre cercò di risolvere a modo suo il problema dei miei capelli fini, trascinandomi dalla sua parrucchiera.
Disse a Ramona, la proprietaria del salone, di ondularmi i capelli con un permanente e se ne andò subito a casa, lasciandomi circondata da donne curiose, che mi guardavano senza ritegno. Erano sedute con la schiena diritta, sotto i caschi degli asciugacapelli che coprivano parte delle loro teste, ma i loro occhi erano sempre puntati su di me. A quel tempo avevo circa sei anni.
La mia permanente è stata una lunga impresa. In primo luogo, mi hanno fatto aspettare parecchio, seduta in una poltrona. La ragazza che lavava i capelli alle signore era molto gentile, mi guardava e sorrideva come per dire, poverina.
Ramona invece, non mi ha quasi considerata durante la lunga attesa. Quel giorno ho potuto scoprire che era una donna molto loquace e anche piuttosto pettegola.
Suo marito, che è venuto al salone a portare dei pacchi, era basettino e gracile al contrario di lei.
Quando è toccato a me, la ragazza sorridente ha messo nella mia sedia dei cuscini per  rialzarmi e mi ha messo delicatamente una specie di asciugamano bianco ben stretto sul collo, poi sopra un panno spesso per proteggere il vestito. Ramona è stata molto meno premurosa nell'operazione di prendermi piccoli ciuffi e arrotolarli intorno a dei bigodini di legno e fissarli con dei nastrini elastici.
Mentre Ramona mi metteva gli ultimi bigodini, mi ha detto che sarei stata condannata a farmi fare, durante tutta la vita, la permanente, come del resto aveva dovuto fare mia madre.
Ramona aveva arrotolato i mie capelli con noncuranza. Dopo la testa mi faceva male a causa delle sue tirate di capelli. Poi con una sorta di pennello mi hanno messo un intruglio appiccicoso che puzzava. Ramona mi ha detto che quel liquido agiva lentamente, per cui avrei dovuto aspettare più di un'ora. Trovandosi il salone abbastanza vicino a casa nostra, mi hanno avvolto la testa con un asciugamano e mi hanno spedita a casa.
Mi ricordo la rabbia e la vergogna che povrai nell'attraversare la piazza principale del paese con quel pastrocchio sulla testa.
Appena arrivata a casa sono scoppiata a piangere e mi sono seduta su una sedia vicino alla finestra che dava sul cortile. Non volevo mai più rivedere Ramona, volevo solo uscire da quel pasticcio.
Mia madre mi ha convinto a tornare dalla parrucchiera, dicendomi che se non mi avessero sciacquato la testa per mandare via il liquido della permanente i miei capelli si sarebbero bruciati.
Sono tornata sconvolta da Ramona, la quale vedendo la mia smorfia mi ha tolto i bigodini con più attenzione.
Mi sono guardata allo specchio con i capelli ricci, ma non mi sono riconosciuta come una bambina, bensì come una donna in miniatura. Ho detto, a voce alta e quasi piangendo, a Ramona, in modo che tutti le pettegole che mi spiavano sotto i caschi sentissero, che non avrei mai più messo piede da lei.
Ho mantenuto la mia promessa e non sono mai più ritornato nel salone, che è rimasto aperto fino a che, dopo qualche anno, morendo Ramona, hanno chiuso.

Per fortuna l'indomani, il giorno di Natale, dimenticai la mia permanente, perché dopo pranzo ci lasciarono, a noi bambini, liberi di gioccare per tutta la casa, mentre  gli adulti stetero  a tavola, ore e ore.
Prima della permanente, ogni mattina mia madre mi faceva due trecce, che mi piacevano molto. E a volte lei mi diceva:
- Nemmeno mettendole insieme le tue due trecce raggiungerebbero lo spessore di una delle trecce di tua cugina.
- Perché non le piacevano le mie trecce? Mi chiedevo, ma senza darle troppa importanza e soprattutto senza sapere a cosa sarei andata incontro dopo poco.
Da adulta, mi sono resa conto che mia madre facendomi fare la permanente aveva creduto di agire nel miglior modo possibile, voleva che in quelle feste natalizie io fosse bella,  perché lei aveva i capelli sottili come me e di questo ne aveva sofferto molto.
A volte mi viene da immaginare mia madre adolescente guardarsi allo specchio:
Vedo una ragazza  che non si rende conto della bellezza dei suoi occhi scuri come il carbone, della sua carnagione chiara e dei lineamenti delicati. Si accorge solo dei capelli troppo lisci.
Poi la vedo già adulta, prima con un po' di imbarazzo e poi felice, il primo giorno in cui era andata da Ramona per dare forma ai suoi capelli.
Ho smesso di pensare a mia madre e alla permanente e mi sono dedicata agli ospiti.
La cena è andata molto bene, ci siamo divertiti, soprattutto mentre parlavamo dei vecchi tempi, quando da studenti abitavamo insieme.
- Ti ricordi della parrucchiera S. Polo? Quella che ti ha scalato i capelli in modo così strano. Ha detto la nostra ospite, sorridendo. 
Siamo scoppiati tutti insieme a ridere e il mio malessere  è completamente scomparso.


lunedì 10 novembre 2014

Inseguendo la tranvia









È una cosa un po' bizzarra inseguire la tramvia, pensò Laura quel pomeriggio di metà febbraio del 2010, mentre era seduta sul sedile posteriore dell'automobile. Guardò dal finestrino e vide la stazione di Santa Maria Novella. Fu allora che ripensò alla prima volta in cui era arrivata a Firenze: era il 1977.

Il treno era partito da Barcellona in orario ma, a causa dei controlli alle frontiere e delle numerose soste, aveva accumulato due ore di ritardo e si era fermato a un binario diverso da quello previsto. Il ragazzo che Laura aveva conosciuto il mese prima a Barcellona dovette attendere a lungo in stazione.
Sarà ancora ad aspettarmi?, si chiedeva Laura scendendo dal treno.
Lo riconobbe in lontananza, nonostante un cappellino di lana grigio e bianco che nascondeva i suoi folti riccioli neri. Era in testa al binario dove di solito arrivavano i treni internazionali e stava scrutando tra la folla cercando di individuarla.
Gli si avvicinò da dietro salutandolo e chiamandolo per nome. Lucio la riconobbe e sorridendo la strinse tra le sue braccia. Il suo naso, incorniciato dal berretto, le sembrò ancora più maestoso e forse per questo cominciò a dargli piccoli morsi, come un topolino che addenta piano piano un pezzo di formaggio.
Frettolosamente si raccontarono alcuni momenti del lungo viaggio in treno e dell'attesa infinita alla stazione.
Abbracciati si incamminarono verso la fermata del bus numero ventitré, quello che andava verso la periferia ovest della città, dove Lucio condivideva un appartamento con altri studenti.
Il pullman avanzava con fatica percorrendo le strade trafficate intorno alla stazione; alla terza fermata il motore non diede più segni di vita e, dopo diversi tentativi di metterlo in moto, l'autista rinunciò. Laura osservò il guidatore, infagottato in un giubbotto blu, mentre armeggiava con un radiotelefono per avvisare la centrale del guasto.
«Non ci voleva! Non ci voleva!» ripeteva l'autista scoraggiato.
Dopo si calmò e spiegò ai passeggeri che avrebbero dovuto aspettare almeno trenta minuti, prima dell'arrivo di un altro mezzo. La maggior parte dei passeggeri rimase immobile a sedere, forse perché non avevano il coraggio di farsi a piedi il lungo tragitto per raggiungere le loro abitazioni; altri scesero silenziosi. Dopo aver deciso di continuare a piedi, Laura si risistemò il collo del giaccone e la sciarpa di lana, ma Lucio volle a tutti i costi coprirle la testa col suo cappellino. Lui si abbottonò bene e si alzò il colletto della giacca di renna che indossava. Così imbacuccati attraversarono strade e piazze che, data la tarda ora e il freddo pungente di quei primi giorni di gennaio, erano deserte.
Mentre camminavano Lucio le raccontò di sua madre, che aveva vissuto alcuni anni a Firenze prima che lui nascesse. Lavorava come guardarobiera in un famoso albergo della città e quando doveva fare il turno di sera, per ritornare a casa, prendeva la tramvia. Aveva vissuto fino all'adolescenza in un paesino dell'Appennino e, come tutti in quegli anni, era abituata a spostarsi a piedi. Camminava ore senza fatica per andare da un paese all'altro. Da quando era in città le mancavano la campagna coltivata, le strade silenziose e gli argini del fiume, ma col tempo aveva saputo cogliere anche la bellezza della città, dei suoi giardini, dei palazzi antichi. La domenica aveva preso l'abitudine di prendere il tram per scoprire i quartieri che non conosceva e osservare la gente vestita a festa.
Laura immaginò la giovane donna che guardava dal finestrino con curiosità e interesse quella Firenze che sembrava immobile, ma che in realtà stava crescendo giorno dopo giorno.
«Poi alla fine degli anni cinquanta le linee urbane del tram sono state sostituite da una fitta rete di filobus», disse Lucio, concludendo il suo racconto.
«Peccato, se ci fosse stata ancora la tramvia, adesso saremmo già a casa al calduccio.»
Mentre Laura pronunciava quelle parole, lui si fermò davanti a un grande portone e infilò la chiave nella serratura. Erano arrivati.

Laura, seduta immobile sul sedile posteriore dell'automobile che inseguiva la tramvia, a un certo punto girò la testa verso l'interno dell'abitacolo e i suoi pensieri tornarono al presente, al pranzo domenicale appena consumato.
Gli ospiti erano arrivati verso l'una. I figli di Laura e Lucio, ventenne l'una e diciottenne l'altro, subito si erano messi a parlare con gli zii. Era un po' di tempo che non si vedevano. Tutti erano impazienti di raccontare, forse per questo Laura si era dimenticata di spegnere il forno.
Sorrideva mentre continuava a pensare a quel pranzo e ad elencare, come faceva di solito, i difetti dei piatti che aveva cucinato: la pasta era troppo al dente, il branzino un po' bruciacchiato, le patate poco dorate e il dolce un poco asciutto.
A tavola avevano parlato di tante cose, ma alla fine si era aperta una lunga discussione sulla nuova tramvia, che proprio quel giorno era stata inaugurata. Lucio aveva raccontato ai figli che la nonna, quando viveva a Firenze, si muoveva spesso in tram e che una volta, quando lui aveva tre o quattro anni, proprio qualche giorno prima che smettesse di funzionare, aveva portato lui e il fratello a fare un giro. Disse poi che di recente aveva letto che durante l'ultima corsa, quella della notte del 20 gennaio 1958, il conducente ebbe un malore, tanto era il suo dispiacere.
Alla fine, per curiosità e per celebrarne la rinascita, decisero di fare un giro sulla nuova tramvia. Prima di uscire di casa, Laura telefonò in Spagna, a casa di sua sorella, dove suo padre, come tutte le domeniche da quando era rimasto vedovo, era andato a pranzo. Alla fine della telefonata, prima di salutarlo gli disse: «Avui es un gran dia, anem tots en tramvia.1»
Invece di salire al capolinea della stazione di Santa Maria Novella – dove pensavano ci fosse una gran folla che, come loro, era curiosa di provare la nuova tramvia decisero di andare in macchina al capolinea di Scandicci, sperando di trovarla meno affollata.
«C'è un piccolo problema», disse Laura, «mi sembra che da qualche giorno la batteria della macchina sia scarica.»
«Va benissimo. Per caricare bene la batteria bisogna fare un po' di chilometri», rispose il fratello di Lucio.
Si recarono al garage, convinti di dover spingere l'auto per avviarne il motore; lì trovarono Paolo, un vicino di casa. Paolo, oltre che essere generoso e disponibile, in materia di auto era attrezzato per qualsiasi evenienza. Appena accennata la questione, non era stato necessario aggiungere altro, perché tirò subito fuori due cavetti che permisero di mettere in moto la macchina senza fatica.
Lucio guidava piano, seguendo i binari del trenino e Laura si sentiva a suo agio in quella strana passeggiata. Dopo aver attraversato il ponte sull'Arno, pensò che il ritmo della sua vita avrebbe dovuto rallentare per poter osservare meglio le persone e le cose intorno a sé.
Tutte le stazioni erano affollate, la gente aspettava tranquilla di salire sul tram. I convogli passavano ininterrottamente in entrambi i sensi, con i vagoni gremiti di passeggeri. Arrivati alla stazione di Scandicci, diversamente da quanto avevano sperato, trovarono proprio quella gran folla che avrebbero voluto evitare. Le persone, alcune sedute e altre in piedi, chiacchieravano animatamente, mentre aspettavano l'arrivo della tramvia.
Avevano capito che avrebbero dovuto aspettare a lungo prima di poter salire sul tram. Decisero allora di proseguire in macchina con l'intenzione, se non altro, di caricare la batteria. Fecero quindi a ritroso il percorso della tramvia arrivando a Firenze all'imbrunire.
Quella sera prima di andare a letto Laura disse a Lucio: «peccato che non siamo riusciti a inaugurare la tramvia, ma almeno inseguendola abbiamo caricato la batteria della macchina.»
Lucio l'abbracciò mentre le diceva «Meno male che trovi sempre il lato positivo delle cose.»
La mattina dopo Laura andò in garage. Quando inserì la chiave nel cruscotto della macchina, capì che qualcosa non andava; riprovò altre volte, ma non ci fu modo di accendere il motore. La sua prima reazione fu di irritazione, dato che in mattinata avrebbe voluto fare mille cose, ma dopo poco si era rinfrancata, convinta che non valeva la pena innervosirsi per un piccolo contrattempo. Chiamò l'elettrauto, che sarebbe arrivato dopo pochi minuti. Si sedette in macchina e mentre aspettava pensò alla frase che avrebbe voluto dire a Lucio: Ieri non siamo riusciti né a rinnovare il tram né a caricare la batteria... ma alcune storie sono nate e altre volate via”

1Oggi è un grande giorno, andiamo tutti in tramvia.






lunedì 3 novembre 2014

La habitación del hospital de Padova





Al día  siguiente de la ecografía fuimos al ambulatorio.
La doctora, tras leer el contenido del sobre blanco que yo deposité en sus manos, me visitó y nos confirmó que el feto, de casi ocho meses, sufría una grave patología al corazón.
Nos aconsejó que fuéramos directamente al hospital.
En aquel momento saqué mi dolor y mi tozudez diciendo:
- Yo no me muevo de casa, pase lo que pase. Hoy es el día de mi cumpleaños. Cumplo treinta y uno, no me pueden ingresar precisamente hoy.
- No se preocupe señora, esta tarde ya no le pueden hacer nada, vaya mañana temprano. Me dijo la ginecóloga apenada por mí.
Salimos del ambulatorio más tristes de lo que habíamos entrado, pues reponíamos una  esperanza remota en la doctora.
Decidimos distraernos e ir a un restaurante con una pareja de amigos, quienes durante aquella noche tan triste nos apoyaron  y mimaron.
Al amanecer llegamos al hospital, en seguida me ingresaron en el área de ginecología y me dieron una cama en una habitación con  dos pacientes más.
Eran mujeres bastante jóvenes: una un poco más que yo y la otra era casi una niña. Estaban muy nerviosas y su embarazo no era evidente.
Me despedí de U. decaída y asustada, pues ni él ni yo no sabíamos lo que iba a ocurrir a partir de aquel momento.
Al cabo de unas horas pasó un médico, quien me dijo que estaban analizando mi caso, que tuviera paciencia, pues al no estar ellos preparados para patologías pre-natales debían buscar otro hospital y no era tan fácil. Por suerte había llevado conmigo un libro.
Me puse cerca de la ventana intentando encontrar sosiego en la lectura. Mientras tanto llegaron unas enfermeras con una camilla y se llevaron a las chicas de mi habitación. Otras auxiliares me trajeron la comida.
Cuando las  embarazadas volvieron al cuarto lloriqueaban, pero la chica joven parecía la más desesperada, me acerqué  a ella para consolarla.
Me contó que había sido espantoso, que no hubiera querido abortar, pero que se había visto obligada,  pues su novio no quería saber nada del niño  y  que todavía no se lo había dicho a sus padres, que en aquel momento estaban de vacaciones, mientras que ella se había quedado en la ciudad para preparar exámenes. Tras esas palabras sentí dos lágrimas que iban resbalando por mi mejilla.
Al oír una voz conocida detrás de mí me espabilé y me sentí más segura. Era U. que me buscaba impaciente. Mientras nos abrazábamos me dijo:
- Un especialista de esta planta me ha comunicado que hay una clínica en Padova, en la que pueden operar el corazón de nuestro hijo.
Era la única esperanza que teníamos y a ella nos agarramos.
Creo que estuve en el hospital de nuestra ciudad un par de días, pero no tengo ni idea de cómo trancurrí el largo tiempo de espera, sin embargo recuerdo que unos amigos y luego unos parientes de U. vinieron a verme para animarme. Con ellos estuve distraída y a gusto. Me sentía bien con las personas que me demostraban cariño, ero lo único que nos daban consuelo.
Una mañana me llevaron a Padova en ambulancia.
El Hospital era muy antiguo y por consiguiente las habitaciones amplias. Había ocho camas en cada cuarto y cada una de las mujeres llevaba a cuestas un embarazo difícil. Debían guardar cama muchas semanas. El tiempo no se contaba, ni por días, ni por meses, sino por semanas.
Algunas conocían bien el ambiente, pues no era la primera vez que lo pisaban. Una de ellas más tarde me dijo que aquel era su quinto embarazo con riesgo de aborto inminente y que ya  había perdido cuatro bebés.
Casi todas se  encontraban mal y se quejaban y no era para menos. Además hacía un calor infernal. Yo, como ellas, me sentía prisionera en aquel hospital. Muchas tenían esperanzas de que, guardando cama, su bebé habría nacido sano, en cambio yo estaba angustiada porque llevaba encarcelado a un ser que tenía pocas probabilidades de llegar  sano al mundo.
-¿Habría aguantado todo eso el pobre niño? ¿Y yo, habría soportado aquella pena? Eso me preguntaba mientras intentaba leer, sentada en un rincón de la habitación.
Poco a poco me familiaricé con las chicas, quienes cada día me iban contando sus aventuras ginecológicas.
Aprendí cuáles eran los síntomas de un embarazo de riesgo, cuáles eran los análisis, las pruebas y los exámenes de sangre y de orina para detectar anomalías fetales, cuáles eran los tratamientos oportunos y sobre todo descubrí que mi hijo se movía poco respecto a un feto sano.
Los movimientos de mi niño eran muy suaves, casi como cosquillas, quizás por eso en aquellos ocho meses jámas había tenido las molestias, de las que me hablaban las chicas, ni mareos, ni hipertensión, ni hinchazones en los pies, ni dolores cabeza, ni cansancio e insomnia. Al contrario desde el principio del embarazo dormía la siesta y por las noches descansaba de maravilla.
A menudo cuando iba al cuarto de baño, me miraba al espejo de cara y de perfil, luego me remangaba el camisón acariciándome los pechos y la barriga. En aquellos momentos recordaba las manos de U. cuando me tocaban los pezones erectos durante nuestros experimentos eróticos, sin embargo aquellos instantes placenteros duraban poco, pues en seguida caía en la cuenta de que tenía que hacer frente a una situación muy dolorosa y me echaba a llorar
En aquellos días me hicieron muchos análisis y ecografías.
Recuerdo sobre todo a un ecografista y a su ayudante que, mientras me inspeccionaban, hacían comentarios en voz baja, sin embargo lo suficiente alta para que yo les pudiera oír.
- ¿Ves este riñón atrofiado? ¡ Y el otro en herradura! ¡Qué raro! La cardiopatía parecía típica de la trisomía 21, sin embargo ahora, descubriendo esos riñones, pienso que podría tratarse de la síndrome de Edwards.
- Por favor díganme lo que pasa ¿Qué anomalías conlleva exactamente la  Trisomía 21 y la  Síndrome de no sé qué? Les pregunté con tanta ansiedad que casi no logré terminar la última frase.
- No se preocupe señora, todavía no estamos seguros de nada. Se lo va a comunicar mañana el doctor Gardin.
Menos mal que aún no existía Internet y no pude consultar el significado   de aquellas   síndromes. Sospechaba que algo  grave tenía  nuestro hijo, pero no tanto como lo que luego íbamos a descubrir.