venerdì 12 giugno 2015

Uñas pintadas - Smalto sulle unghie









Varios meses atrás me llamó la atención un libro, en  el que la escritora, en forma de diario, contaba que haciendo algo inhabitual, cada día sólo por diez minutos, había conseguido bienestar físico y psíquico, a pesar de todos los líos y peripecias que le iban surgiendo.
Me dije que tenía que comprarme aquel libro, sin embargo no lo hice enseguida, porque a medida que pasan los años me he vuelto más parsimoniosa, ya no hago compras compulsivas, sino que soy más ahorrativa, sea por lo que se refiere al coste que al tamaño. Me molesta comprar libros que pesen, que ocupen mucho espacio en mi bolso o que cuesten demasiado.
Me apunté el título en mi pequeña agenda roja, que llevo siempre conmigo. Si  el libro tiene éxito, al cabo de algunos meses, sale en edición de bolsillo, entonces  me lo compro.
Eso es lo que pasó aquella mañana en la que fui a la librería, a una hora inusual para mí.
Había terminado de dar clases en  el Instituto, que se halla en el centro de la ciudad, desde cuyas ventanas se puede admirar el río Arno y todos los magníficos edificios históricos y artísticos.  Cada día vuelvo a casa en bici, agotada y hambrienta, por eso mi pedaleo es rápido y casi no me doy cuenta de lo que me rodea. Aquella mañana, quien sabe por qué, no tenía prisa y me metí por unas callejuelas casi desiertas,  cerca del Duomo. Era casi la una cuando me paré en frente de la librería, por la calle había  sólo algún que otro turista, pues los habitantes de la ciudad a esa hora acostumbran  a  almorzar.
Dejé la bici cerca de la entrada de la tienda y me dispuse a vagabundear por los pasillos, que casi no reconocía, pues siempre están repletos de personas, sea de pie o sentadas, en las butacas o taburetes que hay en la librería.  Aquel día me pude sentar a mis anchas y empecé a hojear algunos libros.
Estuve largo rato en la sección de novela española, luego pasé a la narrativa italiana. Enseguida vi el libro, per dieci minuti, lo abrí y empecé a leer el primer capítulo: uno smalto fucsia
Me miré las uñas pintadas de rojo y recordé el día en que mi hija, en aquel entonces adolescente, me pintó por primera vez las uñas de color carmín. Casi me daba vergüenza salir a la calle e ir al trabajo. Luego me acostumbré y reconocí que los pintaúñas dan alegría. Por eso siento ternura pensando en mi hija y me gustaría abrazarla para agradecerle aquel momento. Podré hacerlo sólo dentro de dos meses, cuando volvamos a vernos, durante las vacaciones de verano, ya que ella vive en Madrid desde hace cinco años.
Me espabilé, empezaba a  tener hambre. Compré el libro y pedaleando hacia casa, miré minuciosamente todo lo que me rodeaba.


Unghie smaltate  di rosso

Diversi mesi fa ho letto una recensione di un libro che mi ha incuriosita: la scrittrice, in forma di diario, raccontava che facendo ogni giorno qualcosa di insolito, solo per dieci minuti, aveva raggiunto benessere fisico e psicologico, nonostante tutti i guai e le sventure che le erano capitate.
Mi sono promessa di comprare quel libro, ma non l'ho fatto subito, perché col passare degli anni sono diventata parsimoniosa, quindi non faccio più acquisti frettolosi. Sei una vera risparmiatrice, mi direte. Non guardo solamente il costo dei testi, ma soprattutto valuto le loro dimensioni. Mi dà fastidio comprare libri pesanti e ingombranti, perché speso li porto in borsa.
Quel giorno ho scritto il titolo nel taccuino rosso, che ho sempre con me. Se il libro avrà successo, dopo pochi mesi, uscirà in edizione tascabile, e sarà allora  che lo comprerò.
Questo è quello che è successo quella mattina, nella quale sono andata in libreria, a un'ora insolita per me.
Avevo finito le lezioni nella scuola dove insegno, che si trova nel centro della città, dalle cui finestre si può ammirare il fiume Arno e tutti i bei edifici storici e artistici. Ogni giorno torno a casa in bicicletta, esausta e affamata, quindi la mia pedalata è veloce e quasi non mi rendono conto della bellezza  che mi sta intorno. Quella mattina, chissà perché, non avevo fretta e mi sono infilata  nelle viuzze, vicino al Duomo. Erano l'una passata quando mi sono trovata di fronte alla libreria. Per la strada c'era solo qualche turista occasionale, dato che gli abitanti della città a quel ora  sono a pranzo.
Ho lasciato la bici vicino all'ingresso del negozio e ho cominciato ad attraversare le sale, che quasi non riconoscevo, perché di solito sono piene di gente, sia in piedi o seduti sulle sedie o sgabelli che si trovano  nei corridoi della libreria. Quel giorno ho potuto sedermi a mio agio e ho iniziato a sfogliare alcuni libri.
Ho trascorso un po' di tempo nella sezione della letteratura spagnola, poi mi sono spostata a quella della narrativa italiana. E' stato li che ho visto il libro, Per dieci minuti, l'ho aperto e ho cominciato a leggere il primo capitolo, uno smalto fucsia.
Subito ho guardato le mie unghie dipinte di rosso e ho ricordato il giorno in cui mia figlia, allora adolescente, mi mise lo smalto di colore fragola nelle unghie delle mani. Sentivo un certo imbarazzato quando uscivo fuori o andavo a lavorare. Poi mi ci sono abituata e mi sono accorta che lo smalto colorato dà allegria. Per questo sento tenerezza pensando a mia figlia,  che desidererei tanto abbracciare, per ringraziarla di quel momento. Lo potrò fare solo tra due mesi, quando ci incontreremo di nuovo durante l'estate, visto che vive a Madrid da cinque anni.
A un certo punto mi sono sbrigata perché cominciavo a sentire fame. Ho comprato il libro e mentre pedalavo verso casa ho guardato con attenzione tutto ciò che  mi scorreva intorno.


giovedì 4 giugno 2015

Seduti nella sala d'attesa




Andare  all'aeroporto, queste tre semplici parole, ogni volta fanno riaffiorare in me delle vecchie storie.
Vorrei scrivere tutti quei ricordi, ma quando penso ai trasferimenti che ho fatto negli ultimi trent'anni da o verso l'aeroporto, le frasi mi nascono in tre lingue diverse. Ho deciso di scrivere in italiano, ma dovrete avere un po' di pazienza se leggendo questo racconto troverete parole in altre lingue.
Negli anni ottanta ho preso poche volte l'aereo, viaggiavo, dalla Toscana alla Catalogna, quasi sempre in treno, perché costava di meno e poi perché era più comodo partire direttamente da Firenze, anche se il viaggio era più lungo,  non dovevo  andare a Roma o a Milano,  dove   allora c'erano i voli per Barcelona.
Quando agli inizi degli anni novanta sono nati i miei due figli, ho cominciato a prendere l'aereo più spesso, soprattutto quando d'estate viaggiavo con i bambini, per andare a trovare i mie genitori nella costa catalana.
Sia mio padre che mia madre, che allora avevano una settantina d'anni, erano molto apprensivi per quanto riguardava le partenze, caratteristica che ho in parte ereditato. Sempre insistevano per venire a prendermi o ad accompagnarmi all'aeroporto. Ma dato che mio padre non era molto pratico nel guidare l'automobile in una grande città, cercava sempre di coinvolgere mio fratello. Lui faceva d'autista molto volentieri, ma a me dispiaceva rubargli del tempo tutte le volte.
Era sempre un tira e molla: io che volevo fare a tutti costi il tragitto, che separava il paese da Barcelona, in treno, per non disturbare nessuno e loro che non mi ascoltavano e finivano sempre per venire.
Ricordo che negli ultimi tempi, ho insistito così tanto nel voler andare in treno, che alla fine ho risparmiato mio fratello dall'incombenza. Ma i miei, soprattutto nei  nostri viaggi di ritorno, non si erano dati per vinti, ci davano un passaggio nella loro macchina fino alla piccola stazione ferroviaria del paese, parcheggiavano di fronte al mare e alla fine prendevano il treno insieme a noi. Con la scusa che dovevano aiutarmi con i bambini, riuscivano sempre nel loro intento di stare con noi fino all'ultimo.
Stavano bene seduti in sala d'attesa, altre volte andavamo a prendere qualcosa nel bar,  fino a quando dagli altoparlanti usciva fuori una voce maschile che annunciava:
- Señores pasajeros con destino a Roma, diríjanse a la puerta de embarque numero seis.
I congedi erano uno strazzio, ricordo che spesso mia madre piangeva mentre diceva:
- Pot ser sarà l'ùltima vegada que ens veurem, em puc morir un dia d'aquests.
Mio padre invece stava molto attento a gli annunci e ci obbligava a sbrigarci. Lasciavamo a metà il croissant o il bicchiere di suc de taronja, che prendevamo, più per passare il tempo che per dissetarci e a quel punto i bambini un po' si agitavano. A mio padre piaceva prendere le nostre borse e incamminarsi verso la porta d'imbarco. Credo fosse soddisfatto dell'aiuto che ci dava. Mia madre invece camminava lentamente, a volte sembrava che volesse trattenerci, come se in quei pochi minuti volesse riempirci delle attenzioni che  pensava le fossero  sfuggite.
Mi piace pensare che i miei genitori, oltre  che a voler  stare fino all'ultimo con noi,  volessero a tutti costi recarsi in aeroporto perché, seduti nella sala d'attesa, nel guardare quel via vai di persone con le valigie, si sentivano come se fossero loro a intraprendere il viaggio.
Un giorno mentre eravamo diretti alla caffetteria abbiamo incontrato due compaesani, marito e moglie. Mi colpirono perché erano bizzarri, non posso dire che fossero belli, ma avevano un sorriso smagliante. I loro indumenti erano normali, ma  avevano qualcosa di diverso, forse più colorati del solito. Il marito  indossava un basco nero che  lo faceva  diventare ancora più piccolo di statura. Andavano in Nuova Zelanda, ci dissero urlando. Il loro bagaglio era ben  sistemato sul carrello, formando una specie di torre,  sembrava che le imponenti valigie, che scivolavano leggere, trascinassero da sole i loro corpi tarchiati e tozzi. Erano i fruttivendoli del paese, lui aveva un orto vicino alle terre che coltivava mio padre. Nessuno avrebbe mai immaginato che quelle due persone così semplici, sedentari e grandi lavoratori, che non chiudevano mai il loro negozio nemmeno per andare in ferie, avessero in tarda età una passione segreta: quella di scoprire terre lontane.
Dopo quell'incontro mio padre e mia madre risero e scherzarono parlando dei due ortolani e quella volta mia madre non pianse.
Ieri mattina, ho portato mia figlia all'aeroporto di Firenze, da dove  è partita per Madrid, città dove abita da diversi anni.
Dovevamo fare una levataccia e quindi ho dormito male, ho aperto gli occhi prima che suonasse la sveglia. Mi sentivo lo stomaco strano, il buio era denso e il silenzio della notte ha fatto si  che i mie pensieri  fossero andati verso il passato, a una sera d'inverno di sette anni prima, nella casa di mio padre. Ero andata a fargli visita, perché era rimasto vedovo da poco e si era ostinato a vivere da solo nella vecchia casa. Era l'ultimo giorno che restavo con lui, la mattina seguente partivo e avrei dovuto prendere, prima il treno per Barcelona e poi l'aereo per Pisa. Lui voleva a tutti costi accompagnarmi alla stazione ferroviaria e mi diceva:
- Et vull portar amb el meu cotxe a la estaciò. No m'importa que sigui de matinada i encara negra nit!
Io lo ringraziavo e gli dicevo che non era necessario, che la stazione distava solo dieci minuti piedi, insistevo e insistevo, ma lui niente. Alla fine, non so come ho fatto, ma l'ho convinto a non alzarsi e a congedarsi da me quella stessa sera.
La mattina, ancora buio, sono uscita di casa prima del previsto, perché mi ero svegliata troppo presto. Lui non se ne era accorto, dato che la sua camera si trovava nel piano superiore, quindi quando si è alzato non ha trovato nessuno in casa. Poi, mi raccontò al telefono il giorno dopo, era andato in piazza a cercarmi. Poverino, non avevo capito quanto lui desiderasse portarmi alla stazione.
Mio padre, anche se non me l'aveva detto, quella mattina credo pensasse che sarebbe stata l'ultima volta che mi poteva dare un passaggio, prima che gli ritirassero la patente.
In effetti dopo qualche mese, ebbe un ictus e non poté più guidare. Dopo la sua morte, avvenuta poco dopo, abbiamo conservato la sua vecchia macchina, che viene usata da noi quando d'estate trascorriamo le vacanze nel paese. Ogni volta che vado a prendere o a portare qualcuno all'aeroporto, sorrido e penso a quanto piaceva ai miei genitori sedersi nella sala d'attesa e guardarsi intorno.