venerdì 12 dicembre 2014

Piccoli traslochi


Francisca era seduta sulla vecchia sedia sdraio nella terrazza della casa di campagna. Il marito era andato a fare un giro in bicicletta. I figli, ormai grandi, non seguivano più i genitori il fine settimana o durante le vacanze. Aveva finito un libro e non ne voleva cominciare un altro per continuare a godere  la storia appena letta. Pensò che poteva  controllare la posta elettronica, quindi rispondere i messaggi  o scrivere nuove mail,  seduta al tavolino del giardino, all'ombra del noce, ma si rese conto che aveva dimenticato il carica-batterie del computer portatile in città:
- Peccato! Oggi il giardino è bellissimo, tutto il prato tappezzato da piccole margheritine, che avrebbero fatto di sfondo ai mie scritti. Andrò a prendere carta e penna e scriverò a mano, come nei vecchi tempi. Disse a se stessa.
La campagna intorno alla casa si stava svegliando, gli uccellini avevano un gran daffare in quella mattina di maggio, in lontananza si sentivano le campane che annunciavano la prima messa nel vicino paese.
Andò in camera da letto a cercare della carta per scrivere. In fondo all'ultimo cassetto le apparvero le lettere di sua madre.
Portò il plico di lettere in giardino, si sedette sotto il  grande albero e cominciò a leggerne alcune. Le più antiche erano del 1977, anno in cui Francisca era partita dal suo paese.
Le missive dalla sua terra le arrivavano ogni settimana. La madre, con una bella calligrafia, le raccontava gli avvenimenti più importanti della famiglia e  volte le parlava di alcuni abitanti del paese. Le buste un po' ingiallite, alcune senza francobollo, perché erano stati staccati per regalarli a un vicino di casa collezionista filatelico, sembravano che aspettassero di essere di nuovo aperte.
Alla fine degli anni novanta la corrispondenza cartacea  tra madre e figlia era piano piano diminuita perché diventata quasi esclusivamente telefonica, salvo alcune rare cartoline inviate a Natale o a Pasqua. Una delle ultime lettere, datata nel 1995, scritta  in una carta rosa con delle fragoline  come frontespizio, era molto diversa dalle altre.
Di solito quando la madre scriveva una lettera lo faceva seduta in cucina, raccontando i piccoli aneddoti o i  grandi avvenimenti della loro vita quotidiana, ma parlava poco di se stessa. Invece la lettera delle fragoline era colma di pensieri intimi e cominciava così:

Cara Figlia:
Sono seduta sulla spiaggia guardando il mare, penso sempre intensamente a voi da quando siete partiti, sento nostalgia dei giorni passati insieme, ma soprattutto mi mancano tanto i vostri bambini. Mi sento sola nella nostra grande casa, tuo padre lavora tutto il giorno e io non smetto di rimuginare sui problemi famigliari.
Fino a qualche minuto fa i mie pensieri erano concentrati sulla famiglia di zia Lola. Non ti ho mai raccontato che zio Pepe, suo marito, non mi può soffrire. Lui non mi ha mai perdonato il fatto che io non avessi accettato la richiesta di matrimonio di Juaquín. suo fratello.
Juaquín era il giovane medico di Santa Tecla, quel piccolo paese che dista poco dal nostro. Lo ricordi? Lui era sempre gentile e affettuoso con tutti. Aveva una gran passione per il suo lavoro ed spesso si dimenticava di guardarsi allo specchio. I suoi capelli ribelli e i suoi indumenti fuori moda, gli davano un'aria svanita. Tutti mi dicevano che era un buon partito, ma io non ero sicura di amarlo. Pepe diventò, dopo la morte precoce di suo fratello, l'unico erede di una famiglia benestante, ma un po' strana. Oltre che gli anziani genitori, nella casa della famiglia Tordera, così venivano chiamati, vivevano quattro bizzarri zii  celibi. La gente mormorava che fossero molto avari, forse perché avevano comprato in paese molte case e tanti ettari di terra e non si sapeva bene con quali soldi. I più maliziosi dicevano che anticamente erano stati gli strozzini del paese. Lola, la sorella piccola di tuo padre, sposandosi con Pepe, sacrificò tutta la sua gioventù badando, uno alla volta, i quattro vecchietti.
Ma adesso Lola ha una bella casa, invece io no. Di questo ne sono un po' invidiosa.
Mi sento imprigionata, non ho mai potuto fuggire di questa nostra vecchia dimora.
Vorrei avere avuto una vita diversa, forse per questo, nonostante il dolore che ho sentito alla tua partenza, ora sono contenta e orgogliosa di te, per il coraggio che hai avuto nel lasciare la nostra terra.
Quando sei andata via sono stata molto male, piangevo tutti giorni. Una sera vennero a trovarmi i tuoi zii, ricordo che Pepe, invece di consolarmi, mi fece un gran male, dicendomi che se tu eri scappata via, abbandonando i genitori, era tutta colpa mia.
- Tu non hai carattere, mi diceva.
Lui faceva sparire in me l'allegria di avere dei figli che lottavano per aprirsi spazio nella vita. Mi schiacciava sempre, facendomi sentire che la mia vita era tutta sbagliata.
No ti ho mai detto che alla fine degli anni'50, ho sofferto molto, dopo aver scoperto di aver una rara malattia autoimmune. Anche in quell'occasione Pepe mi umiliava dicendomi che era tutta colpa mia, che ero troppo magra, che mi ero trascurata e soprattutto mi ripeteva che solo sapevo fare infelice gli altri. Ero incinta di tuo fratello, tu avevi appena un anno, mi ricordo che la levatrice del paese, mi diede il coraggio per affrontare la malattia, la nuova gravidanza e il parto.
Guardando il mare vedo la mia vita scorrere, avanti e indietro, cose fatte bene e cose fatte male.
Vorrei essere stata come mia sorella, lei ha un buon cuore, aiuta sempre gli altri, non è invidiosa come me e sempre è contenta di quello che ha.
Il via vai delle onde mi ricorda ossessivamente che ho trascorso tutta la mia vita nella casa secolare dei miei trisnonni, eppure da giovane, volevo andare a vivere altrove. Spesso mi vedevo mentre preparavo il baule e le grandi valige per il trasloco. Invece mi innamorai di tuo padre, che era del nostro paese. Lui mi faceva la corte, era bello, ma povero. Il giorno che l'ho visto ballare con un'altra, ho deciso che lo avrei sposato, anche se il mio sognato trasloco era in pericolo.
Tuo padre ed io, quando ci siamo fidanzati, speravamo, che dopo il matrimonio, saremo andati ad abitare da soli in una casetta, con un piccolo giardino e un pergolato, proprietà di tuo nonno paterno. Ma le cose si sono complicate, qualcuno della famiglia ha fatto cambiare idea a mio futuro suocero. Forse c'è stata la zampina di zio Pepe. No l'ho mai saputo.
Penso che avrei potuto cucinare  per voi dei piatti migliori.
Vorrei tanto poter ritornare al giorno nel quale siete arrivati, te lo dico con tutto il cuore, vorrei essere stata migliore, più affettuosa e più brava, sia come madre che come nonna.
In questi giorni di vacanza ti ho visto sempre presa dai bambini. Penso che non hai mai tempo per te stessa, ma ti sento felice e si vede che stai volentieri con i tuoi figli. Io invece, quando voi eravate piccoli, mi sentivo ingolfata di emozioni, di rabbia, di fallimento, di malattia, di dolore e soprattutto di fatica. Non riuscivo quasi a galleggiare. Volevo solo che passassero gli anni velocemente per vedervi già cresciuti.
Adesso mi sento più tranquilla dopo averti scritto.
Il mare è calmo, come ora lo è il mio spirito, la spiaggia è deserta, come a volte lo è il mio cuore. La schiuma bianca, che mi bagna i piedi, mi accarezza e mi sussurra, che lei non è la stessa acqua di prima, che tutto cambia, anche se noi rimaniamo nello stesso posto. Questo pensiero mi fa capire che in questi anni le cose intorno a me sono mutate, e che forse dovrei accontentarmi dei piccoli traslochi. Si, voglio passare questi ultimi anni accanto a tuo padre, accettando la mia vita, che non è stata come sognavo, ma che dopo tutto adesso non è così male.    
Scrivimi ma non citare questa mia lettera. Ti auguro tutta la felicità di questo mondo. 
Un abbraccio
Tua madre 

Appena finita la lettura, Francisca accarezzò la lettera, la mise tra le pagine del libro che aveva in borsa e pensò che sua madre aveva ragione, se la vita non ci ha regalato dei cambiamenti o noi non siamo riusciti ad aggrapparsi alle nuove opportunità, bisognava accontentarsi dei piccoli traslochi.













giovedì 4 dicembre 2014

La paciente catalana - La paziente catalana












Sólo un miembro del  personal del viejo hospital de Padova, el doctor Gardin, me trataba con cariño durante aquellos días calurosos de julio de tantos años atrás. Gracias a su apoyo y por supuesto al de U. no sucumbí en las arenas movedizas en que me hallaba.
Uno de los primeros días, durante la visita ginecóloga de rutina, me preguntó:
- Cosa  fa nella vita la  mi paziente catalana?
Desde que le había contado que era de un pueblo de la costa, cerca de Barcelona, a él le gustaba llamarme de esa manera.
- Soy profesora pero mi trabajo por ahora es provisional. Para poder vivir enseño en una academia. Sin embargo, después de mi licenciatura en  Italia y al ganar hace unos meses oposiciones para la enseñanza secundaria, espero que me den una plaza estable el año que viene.
- Ya sería hora  de que a los treinta años consiguiera cada mes un sueldo decente, le dije eso pensando en los cuatro chavos que ganaba en la escuela privada.  
Debe de ser interesante ser profesora y estar siempre en contacto con los jóvenes, me dijo él mientras me visitaba.
- A veces es agotador, sobre todo, cuando a los chicos no les gusta nada estudiar, pero a mí me encanta contribuir a que los demás aprendan. Ya desde pequeña iba muy a gusto al colegio, me gustaba ayudar a las niñas que no lograban hacer los deberes y sobre todo estaba pendiente de mi hermano, dos años menor que yo, a quien le interesaba mucho hacer deporte, escuchar discos y un poco menos estudiar.
El doctor Gardin tenía una voz cálida, que me hacía sentir bien, sobre todo cuando hablaba en su lengua con sus compañeros de trabajo.
El idioma de los habitantes de Padova, que muchas personas llaman dialecto, tiene algunas palabras parecidas al catalán, esos sonidos me acariciaban y me aliviaban un poco aquella larga espera.
Sin embrago en algunos momentos aparecía en mí un sentimiento que antes desconocía:
- ¿Por qué no le ha pasado nada a la mujer de Pietro, nuestro amigo, la que durante el embarazo se quejaba siempre, la que le dolía todo? ¿Por qué me ha tocado a mí y no a ella o a otra?
Luego me avergonzaba de mi envidia y borraba esos pensamientos.
Habían pasado casi diez días desde que me ingresaron. A U. se le iban acabando los días de vacaciones, por lo tanto decidió volver a Firenze al día siguiente.
Nos despedimos muy tristes, porque en esos últimos días habíamos descubierto que nuestro hijo, a pesar de todas las operaciones o terapias que iban a hacerle, no se curaría jamás.
A la mañana siguiente, la comadrona me visitó y tras auscultarme notó que el corazón del feto tenía un ritmo muy lento y lo más alarmante era que a veces desaparecía.
Llamó con urgencia al doctor Gardin, quien llegó enseguida. Lo noté un poco nervioso hablando con las enfermeras de su equipo. Me comunicó que iban a preparar el quirófano para operarme y quiso tranquilizarme diciéndome, que antes de la cesárea tendrían que depilarme, que no me  preocupara porque iban anestesiarme y que me haría un corte tan pequeño encima de la vulva, que no se me iba a notar, ni siquiera cuando me pusiera el traje de baño.
Una enfermera me trasladó a una sala pre-operatoria y allí me depiló con una brocha de jabón de afeitar y una cuchilla.
Entré en el quirófano bastante tranquila, quizás porque pensaba que ponía fin a aquella pesadilla.
Me dormí con la imagen de la barba del doctor Gradin, corta y un poco cana.
La voz de U. y la del médico se mezclaban, me llamaban por mi nombre para que me despertara. Yo les oía pero no conseguía entrar en contacto con ellos. Estaba en un espacio paralelo de donde no lograba salir.
Me tocaban y me movían, pero yo no podía reaccionar.
Creo que duró bastante tiempo esa vivencia en aquel limbo.
- El niño está vivo y duerme tranquilo. Se parece a ti. Me dijo U. sacudiéndome.
- Brava la mi paziente catalana, dijo el doctor Gardin, cuando abrí los ojos. Su cara denotaba alivio, pues había temido que no me despertara. Eso nos lo dijo al cabo de unos días.
Me trasladaron a otro edificio moderno, donde se hallaba la Maternidad. Recuerdo con dolor mi horas pasadas en una pequeña habitación, junto a una puérpera que lloraba siempre, porque su niño no mamaba.
Yo le contaba mi desgracia, para consolarla:
- Tú tienes poca leche, a mí me la tienen que cortar porque nadie podrá mamar de mis pechos, tú tienes un hijo sano, yo en cambio he parido un niño que morirá dentro de poco. No te desesperes, tu niño es gordito, el mio pesa un kilo y medio y ni siquiera logra respirar por sí mismo.
- Pero mi hijo también se morirá si no me llega más leche para amamantarlo. Decía sollozando.
Para distraerme me ponía a leer uno de los libros que había llevado conmigo, ya que no podía moverme de la cama por la herida.
Cada día venía a verme U., sentado a mi lado me hacía compañía contándome los detalles del niño en su cuna térmica, mientras mi vecina lloriqueaba sin cesar.
Al tercer día con una silla de ruedas U. me llevó a ver a nuestro hijo, en una sala donde habían muchas incubadoras.
Primero vi su cabeza redonda y el rostro delicado, luego su cuerpo delgado, casi raquítico; por último me fijé en los pies. Eran preciosos, parecían más rechonchos que el resto del cuerpo. Llevaba un pañal y una camiseta de algodón amarilla que le quedaba muy grande. Creo que si lo hubiéra visto desnudo hubiera sido más doloroso para mí. Respiraba a través de unos tubos y algunos goteros le ayudaban a sobrevivir.
U. y yo acariciábamos el cristal de la incubadora silenciosos. Cada uno peleando con sus ánimos contradictorios. No sabíamos qué esperar,  que el niño luchara para vivir unos meses o que muriera, ya.
Los pediatras habían sido muy claros:
- No hay nada que hacer, imposible una operación o un trasplante de corazón,  pues al tener muchos órganos afectados resultan comprometidas muchas funciones de primer orden. Podrá sobrevivir unos días o unos meses, quien sabe.
El doctor Gardin vino a verme, a pesar de que ya no estuviera ingresada en su área de riesgo gestacional y me animó mucho con sus palabras.
Nos dijo que  estaba orgulloso de nosotros, porque estábamos superando con valor y fuerza esa tremenda adversidad del destino, que  estaba seguro de que tendríamos otros hijos sanos y que volveríamos a ser felices, por último nos aconsejó que esperáramos unos dos años antes de un nuevo embarazo.
Recuerdo que aquel día empecé el primer libro de la ricerca del tempo perduto de Proust. Lo recuerdo como un libro amable  y de buena compañia, quizás porque los detalles de la novela me distraían, quietud y lentitud me abrazaban, sin embargo sólo hoy  mis manos  han  logrado  abrirlo de nuevo.
Cada día me estaba recuperando más, a los ocho días del parto decidieron darme de alta.
El doctor Gardin, el último día de mi estancia en el hospital, vino a despedirse y fue muy amable con nosotros.
Giacomo, ese fue el nombre que le pusimos a nuestro hijo, tenía que seguir en la incubadora, por consiguiente decidimos quedarnos un día más en Padova en casa de un amigo, luego tendríamos que turnarnos para estar junto al niño.
Mientras estábamos comiendo un plato de pasta muy sabroso, que nuestro amigo nos había preparado, nos llamaron por teléfono diciéndonos que Giacomo había fallecido.
Recuerdo poco aquellos momentos: funeraria, ataúd blanco, coche fúnebre, desplazamiento en la autopista hacia Firenze, iglesia, funeral, cementerio y sepultura.
Fue todo tan rápido que no llegamos a avisar al doctor Gardin de la muerte de nuestro hijo.
Al cabo de unos meses volvimos a Padova, para que nos hicieran análisis y pruebas para investigar sobre nuestros genes.
Antes de ir a la estación para volver a Firenze, pasamos por el viejo hospital, pero el doctor Gardin no estaba aquel día de guardia y no pudimos verle. Le dejamos una nota.
Nunca más supimos nada él, sin embargo me hubiera gustado contarle que tenía razón, cuando nos decía que habríamos tenido otros hijos y que habríamos sido felices de nuevo. 

La paziente catalana
Il Dottor Gardin fu l'unico membro del personale del vecchio ospedale di Padova, che mi trattò con affetto in quei giorni caldi di luglio di tanti anni fa. Grazie al suo sostegno e naturalmente a quello di, U., mio marito, non sono sprofondata nelle sabbie mobili in cui mi ero impantanata.
Uno dei primi giorni, durante la visita ginecologica di routine, mi chiese:
- Cosa fa nella vita, la mia prima paziente catalana ?
Da quando gli avevo detto che ero nata in una città costiera vicino a Barcellona, gli piaceva chiamarmi così.
- Sono un'insegnante, ma il mio lavoro per ora è provvisorio. Tuttavia, dopo la mia laurea italiana e dopo aver vinto l'ultimo concorso per le scuole superiori, spero di entrare di ruolo l'anno prossimo.
Poi ho aggiunto:
- Sarebbe bello a trenta anni avere uno stipendio ogni mese, sarebbe l'ora. Pronunciai queste parole pensando al lavoro sottopagato che che mi era toccato svolgere nelle scuole private, in tutti quegli anni.
- Deve essere interessante fare l'insegnante, rimanere sempre a contatto con i giovani, mi disse lui mentre mi stava visitando.
- A volte è faticoso, soprattutto quando i ragazzi hanno problemi e quindi lavorano poco, perché pensano di non farcela. Da sempre mi è piaciuto aiutare e collaborare con gli altri:  da piccola,  davo una mano alle compagne che non erano riuscite a fare i compiti, ma soprattutto aiutavo mio fratello, due anni più giovane di me, che era molto interessato allo sport, ad ascoltare musica e un po' meno a studiare.
Il dottor Gardin aveva una voce calda che mi faceva sentire bene, soprattutto quando parlava nella propria lingua con i suoi colleghi.
La lingua degli abitanti di Padova, che molte persone chiamavano dialetto, aveva delle parole simili a quella della mia lingua madre. Quei suoni mi accarezzavano e mi alleviavano un po' la lunga attesa.
A volte nasceva in me un sentimento, che prima mi era totalmente sconosciuto:
- Perché  questo dramma non è  capitato alla moglie del collega di U. che durante tutta la gravidanza stava male e si lamentava di tutto? Perché è toccato a me e non lei o un'altra donna?
Poi mi vergognavo della invidia che sentivo e cancellavo quei pensieri.
Erano passati quasi dieci giorni da quando ero entrata in quel ospedale. U. stava finendo i giorni di ferie, quindi aveva deciso, suo malgrado, di tornare a Firenze la mattina dopo.
Quella sera ci siamo lasciati molto tristi, perché in quegli ultimi giorni avevamo scoperto che nostro figlio, nonostante tutte le operazioni o le terapie che avrebbe dovuto affrontare alla nascita, non aveva speranze di vita.

La mattina presto, l'ostetrica mi ha visitato e dopo avermi auscultata ha notato che il cuore del feto aveva un ritmo molto lento, ma la cosa più allarmante è che il battito a volte scompariva.
Ha chiamato di corsa il dottor Gardin, il quale è arrivato subito. Ho notato che era un po' agitato mentre parlava con le infermiere. Mi ha fatto subito sapere che stavano preparando la sala operatoria per un taglio cesareo. Poi ha voluto rassicurarmi dicendomi:
- Prima del parto cesareo dobbiamo depilarle la vulva, non si deve preoccupare perché l'anestesia sarà totale. Il taglio sarà così piccolo che potrà indossare, senza che si veda la ferita, il costume da bagno.
Un'infermiera mi ha accompagnata nella sala pre-operatoria e lì mi ha depilato con sapone da barba e rasoio.
Sono entrata in sala operatoria piuttosto tranquilla, forse perché pensavo che, nel bene o nel male, sarebbe finito quell'incubo.
Mi sono addormentata guardando la barba brizzolata del dottor Gardin.
Dopo, ho un ricordo nebbioso della voce di U. e quella del dottore, che mi chiamavano per svegliarmi. Li sentivo ma non riuscivo a entrare in contatto con loro.   Ero in uno spazio parallelo, da dove non potevo uscire.
Mi toccavano e mi scuotevano, ma io non riuscivo a reagire. Penso che l'esperienza in quel limbo sia durata abbastanza a lungo.
- Il bambino è vivo e dorme tranquillo. Assomiglia a te. Mi ha detto U. muovendomi il torace con vigore.
- Brava la mia paziente catalana, ha aggiunto il dottor Gardin, appena ho aperto gli occhi.
Il suo volto manifestava sollievo. Aveva temuto che non mi svegliassi. Così mi ha detto qualche giorno dopo.
Sono stata trasferita ad un altro edificio moderno, nel reparto maternità. Ricordo con dolore le ore trascorse in una piccola stanza, accanto a una giovane donna che sempre piangeva, perché temeva di non poter allattare  il suo bambino,  si era convinta di non avere latte.
Gli ho raccontato la mia storia sfortunata per consolarla:
- Tu forse hai poco latte, ma vedrai che sarà sufficiente a tuo figlio; pensa a me che hanno dovuto bloccarmelo perché non ci sarà nessuno a succhiare i miei capezzoli; il tuo è un bambino sano, ma io ho partorito un figlio che morirà tra poco. Non disperare, il tuo bambino è paffuto, il mio pesa solamente un chilo e mezzo e non può neppure respirare da solo.
- Ma mio figlio morirà per colpa mia. Ripeté quella frase diverse volte, mentre singhiozzava.
Non riuscivo a consolarla, quindi per distrarmi ho deciso di leggere uno dei libri che avevo portato con me, dato che ancora non potevo muovermi dal letto per la recente ferita.
Ogni giorno U. veniva a trovarmi, seduto accanto a me mi teneva compagnia,  mentre la mio vicina piagnucolava incessantemente.
Poi  lui  mi raccontava del nostro bambino, il quale si trovava in un altro reparto.
Il terzo giorno, con una sedia a rotelle U. mi portò a vedere nostro figlio, in una grande stanza dove c'erano molte incubatrici.
La prima cosa che ho visto di lui è stata la testa rotonda e il viso delicato, poi il suo corpo esile, quasi denutrito; Infine ho notato i piedi. Erano belli, sembravano più grassocci rispetto al resto del corpo. Indossava un pannolino e una camicia di cotone gialla, troppo grande per lui. Penso che se fosse stato nudo, vederlo sarebbe stato più doloroso per me. Respirava attraverso dei tubi e alcune sonde lo aiutavano a sopravvivere.
Entrambi abbiamo incominciato ad accarezzare il vetro dell'incubatrice in silenzio. In  sciascuno di noi si scontravano i propri stati d'animo contraddittori. Non sapevamo cosa aspettarci: che il bambino lottasse per vivere un paio di mesi o che morisse subito.
I pediatri erano stati molto chiari:
- Niente da fare, dimenticatevi degli interventi chirurgici o di un eventuale trapianto di cuore. Avendo diversi organi anomali e altri atrofizzati, sono compromesse molte funzioni di primo ordine. Potrà sopravvivere pochi giorni o addirittura alcuni mesi, nessuno lo può sapere.
Il dottor Gardin venne a trovarmi, anche se non ero più nel suo reparto gravidanze a rischio e mi aiutò molto con le sue parole.
- Sono fiero di voi perché avete saputo superare con coraggio e forza la tremenda avversità che il destino vi ha riservato, sono sicuro che avrete altri figli sani e che sarete di nuovo felici.
Infine, ci consigliò di aspettare circa due anni prima di un'altra gravidanza.
Ricordo che quel giorno ho iniziato il primo libro della ricerca del tempo perduto di Proust. I dettagli minuziosi della storia mi davano sollievo e mi distraevano. E' stato un libro amabile e di buona compagnia, il silenzio e la lentezza di quelle ore di lettura, mi abbracciavano. Ma fino ad oggi le mie mani  non hanno aperto quel libro.
Ogni giorno che passava mi riprendevo sempre di più. L'ottavo giorno dopo il parto mi hanno fatto uscire dall'ospedale.
Il dottor Gardin, l'ultimo giorno della mia degenza, è venuto a salutarci e come sempre è stato molto gentile con noi.
Giacomo, questo è il nome che abbiamo dato a nostro figlio, non poteva vivere fuori dell'incubatrice, quindi abbiamo deciso di restare insieme un altro giorno a Padova a casa dell'amico che aveva ospitato U, poi alternandoci,  sarebbe rimasto uno di noi in quella città, Mentre stavamo mangiando un piatto di pasta asciutta, che il nostro amico  ci aveva preparato, abbiamo ricevuto una telefonata, che ci annunciava che Giacomo era morto.
Ricordo poco quei momenti: gli addetti dell' impresa funebre, la bara bianca, il carro funebre, il trasferimento in autostrada a Firenze, la chiesa, il funerale, il cimitero e la sepoltura.
E' andato tutto così veloce che ci siamo dimenticati di avvertire il Dottor Gardin della morte di nostro figlio.
Dopo un paio di mesi siamo tornati a Padova, per fare delle analisi e indagini genetiche.
Prima di recarsi alla stazione a prendere il treno per Firenze, siamo andati al vecchio ospedale, ma non abbiamo trovato il dottor Gardin, quindi gli abbiamo lasciato un biglietto.
Non abbiamo saputo più niente di lui. Mi sarebbe piaciuto avergli potuto dire, che aveva proprio ragione quando ci aveva assicurato che avremmo avuto altri figli sani e che saremmo stati di nuovo felici.