lunedì 10 novembre 2014

Inseguendo la tranvia









È una cosa un po' bizzarra inseguire la tramvia, pensò Laura quel pomeriggio di metà febbraio del 2010, mentre era seduta sul sedile posteriore dell'automobile. Guardò dal finestrino e vide la stazione di Santa Maria Novella. Fu allora che ripensò alla prima volta in cui era arrivata a Firenze: era il 1977.

Il treno era partito da Barcellona in orario ma, a causa dei controlli alle frontiere e delle numerose soste, aveva accumulato due ore di ritardo e si era fermato a un binario diverso da quello previsto. Il ragazzo che Laura aveva conosciuto il mese prima a Barcellona dovette attendere a lungo in stazione.
Sarà ancora ad aspettarmi?, si chiedeva Laura scendendo dal treno.
Lo riconobbe in lontananza, nonostante un cappellino di lana grigio e bianco che nascondeva i suoi folti riccioli neri. Era in testa al binario dove di solito arrivavano i treni internazionali e stava scrutando tra la folla cercando di individuarla.
Gli si avvicinò da dietro salutandolo e chiamandolo per nome. Lucio la riconobbe e sorridendo la strinse tra le sue braccia. Il suo naso, incorniciato dal berretto, le sembrò ancora più maestoso e forse per questo cominciò a dargli piccoli morsi, come un topolino che addenta piano piano un pezzo di formaggio.
Frettolosamente si raccontarono alcuni momenti del lungo viaggio in treno e dell'attesa infinita alla stazione.
Abbracciati si incamminarono verso la fermata del bus numero ventitré, quello che andava verso la periferia ovest della città, dove Lucio condivideva un appartamento con altri studenti.
Il pullman avanzava con fatica percorrendo le strade trafficate intorno alla stazione; alla terza fermata il motore non diede più segni di vita e, dopo diversi tentativi di metterlo in moto, l'autista rinunciò. Laura osservò il guidatore, infagottato in un giubbotto blu, mentre armeggiava con un radiotelefono per avvisare la centrale del guasto.
«Non ci voleva! Non ci voleva!» ripeteva l'autista scoraggiato.
Dopo si calmò e spiegò ai passeggeri che avrebbero dovuto aspettare almeno trenta minuti, prima dell'arrivo di un altro mezzo. La maggior parte dei passeggeri rimase immobile a sedere, forse perché non avevano il coraggio di farsi a piedi il lungo tragitto per raggiungere le loro abitazioni; altri scesero silenziosi. Dopo aver deciso di continuare a piedi, Laura si risistemò il collo del giaccone e la sciarpa di lana, ma Lucio volle a tutti i costi coprirle la testa col suo cappellino. Lui si abbottonò bene e si alzò il colletto della giacca di renna che indossava. Così imbacuccati attraversarono strade e piazze che, data la tarda ora e il freddo pungente di quei primi giorni di gennaio, erano deserte.
Mentre camminavano Lucio le raccontò di sua madre, che aveva vissuto alcuni anni a Firenze prima che lui nascesse. Lavorava come guardarobiera in un famoso albergo della città e quando doveva fare il turno di sera, per ritornare a casa, prendeva la tramvia. Aveva vissuto fino all'adolescenza in un paesino dell'Appennino e, come tutti in quegli anni, era abituata a spostarsi a piedi. Camminava ore senza fatica per andare da un paese all'altro. Da quando era in città le mancavano la campagna coltivata, le strade silenziose e gli argini del fiume, ma col tempo aveva saputo cogliere anche la bellezza della città, dei suoi giardini, dei palazzi antichi. La domenica aveva preso l'abitudine di prendere il tram per scoprire i quartieri che non conosceva e osservare la gente vestita a festa.
Laura immaginò la giovane donna che guardava dal finestrino con curiosità e interesse quella Firenze che sembrava immobile, ma che in realtà stava crescendo giorno dopo giorno.
«Poi alla fine degli anni cinquanta le linee urbane del tram sono state sostituite da una fitta rete di filobus», disse Lucio, concludendo il suo racconto.
«Peccato, se ci fosse stata ancora la tramvia, adesso saremmo già a casa al calduccio.»
Mentre Laura pronunciava quelle parole, lui si fermò davanti a un grande portone e infilò la chiave nella serratura. Erano arrivati.

Laura, seduta immobile sul sedile posteriore dell'automobile che inseguiva la tramvia, a un certo punto girò la testa verso l'interno dell'abitacolo e i suoi pensieri tornarono al presente, al pranzo domenicale appena consumato.
Gli ospiti erano arrivati verso l'una. I figli di Laura e Lucio, ventenne l'una e diciottenne l'altro, subito si erano messi a parlare con gli zii. Era un po' di tempo che non si vedevano. Tutti erano impazienti di raccontare, forse per questo Laura si era dimenticata di spegnere il forno.
Sorrideva mentre continuava a pensare a quel pranzo e ad elencare, come faceva di solito, i difetti dei piatti che aveva cucinato: la pasta era troppo al dente, il branzino un po' bruciacchiato, le patate poco dorate e il dolce un poco asciutto.
A tavola avevano parlato di tante cose, ma alla fine si era aperta una lunga discussione sulla nuova tramvia, che proprio quel giorno era stata inaugurata. Lucio aveva raccontato ai figli che la nonna, quando viveva a Firenze, si muoveva spesso in tram e che una volta, quando lui aveva tre o quattro anni, proprio qualche giorno prima che smettesse di funzionare, aveva portato lui e il fratello a fare un giro. Disse poi che di recente aveva letto che durante l'ultima corsa, quella della notte del 20 gennaio 1958, il conducente ebbe un malore, tanto era il suo dispiacere.
Alla fine, per curiosità e per celebrarne la rinascita, decisero di fare un giro sulla nuova tramvia. Prima di uscire di casa, Laura telefonò in Spagna, a casa di sua sorella, dove suo padre, come tutte le domeniche da quando era rimasto vedovo, era andato a pranzo. Alla fine della telefonata, prima di salutarlo gli disse: «Avui es un gran dia, anem tots en tramvia.1»
Invece di salire al capolinea della stazione di Santa Maria Novella – dove pensavano ci fosse una gran folla che, come loro, era curiosa di provare la nuova tramvia decisero di andare in macchina al capolinea di Scandicci, sperando di trovarla meno affollata.
«C'è un piccolo problema», disse Laura, «mi sembra che da qualche giorno la batteria della macchina sia scarica.»
«Va benissimo. Per caricare bene la batteria bisogna fare un po' di chilometri», rispose il fratello di Lucio.
Si recarono al garage, convinti di dover spingere l'auto per avviarne il motore; lì trovarono Paolo, un vicino di casa. Paolo, oltre che essere generoso e disponibile, in materia di auto era attrezzato per qualsiasi evenienza. Appena accennata la questione, non era stato necessario aggiungere altro, perché tirò subito fuori due cavetti che permisero di mettere in moto la macchina senza fatica.
Lucio guidava piano, seguendo i binari del trenino e Laura si sentiva a suo agio in quella strana passeggiata. Dopo aver attraversato il ponte sull'Arno, pensò che il ritmo della sua vita avrebbe dovuto rallentare per poter osservare meglio le persone e le cose intorno a sé.
Tutte le stazioni erano affollate, la gente aspettava tranquilla di salire sul tram. I convogli passavano ininterrottamente in entrambi i sensi, con i vagoni gremiti di passeggeri. Arrivati alla stazione di Scandicci, diversamente da quanto avevano sperato, trovarono proprio quella gran folla che avrebbero voluto evitare. Le persone, alcune sedute e altre in piedi, chiacchieravano animatamente, mentre aspettavano l'arrivo della tramvia.
Avevano capito che avrebbero dovuto aspettare a lungo prima di poter salire sul tram. Decisero allora di proseguire in macchina con l'intenzione, se non altro, di caricare la batteria. Fecero quindi a ritroso il percorso della tramvia arrivando a Firenze all'imbrunire.
Quella sera prima di andare a letto Laura disse a Lucio: «peccato che non siamo riusciti a inaugurare la tramvia, ma almeno inseguendola abbiamo caricato la batteria della macchina.»
Lucio l'abbracciò mentre le diceva «Meno male che trovi sempre il lato positivo delle cose.»
La mattina dopo Laura andò in garage. Quando inserì la chiave nel cruscotto della macchina, capì che qualcosa non andava; riprovò altre volte, ma non ci fu modo di accendere il motore. La sua prima reazione fu di irritazione, dato che in mattinata avrebbe voluto fare mille cose, ma dopo poco si era rinfrancata, convinta che non valeva la pena innervosirsi per un piccolo contrattempo. Chiamò l'elettrauto, che sarebbe arrivato dopo pochi minuti. Si sedette in macchina e mentre aspettava pensò alla frase che avrebbe voluto dire a Lucio: Ieri non siamo riusciti né a rinnovare il tram né a caricare la batteria... ma alcune storie sono nate e altre volate via”

1Oggi è un grande giorno, andiamo tutti in tramvia.






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