giovedì 21 febbraio 2013

Le scarpe della domenica - Los zapatos de los domingos
















Quella domenica di novembre si votava per eleggere i membri del parlamento della Catalogna e contemporaneamente si svolgevano in Italia, paese dove abitavo da più di trenta anni, le primarie per scegliere il candidato premier del partito democratico.
Abbiamo deciso che saremmo andati a votare nel pomeriggio per evitare la fila, quindi sono rimasta a letto fino a tardi a leggere e a scrivere qualche mail agli amici, dopo aver fatto una bella colazione a base di tè, pane tostato e marmellata di arance.
U. si era alzato presto per andare in bicicletta con alcuni amici, nostro figlio ventenne era partito all'alba per la raccolta delle olive nel podere del proprietario della trattoria dove lavorava e nostra figlia studiava da due anni a Madrid, quindi ero da sola a casa e il tempo in quella domenica di fine novembre scorreva piacevolmente.
A un tratto ho sentito un'allegra melodia che proveniva dalla strada, subito mi è tornata in mente la musica che ascoltavo da piccola seduta sul balcone della casa dove ero nata, posta nella parte antica di un piccolo paese della costa catalana. 
La domenica e il lunedì di Pasqua i ragazzi delle caramelles1 vestiti con costumi tradizionali passavano per le case del paese a cantare canzoni popolari, accompagnati da semplici strumenti musicali e alla fine uno di loro avvicinava ai balconi un lungo bastone, sul quale era legato un grande cesto, dove i vicini depositavano un' offerta. L'evento era promosso  dalla chiesa e altre associazioni del paese e con i soldi raccolti organizzavano una gita per i ragazzi. Anche mia sorella, più grande di me di sette anni, tutti gli anni andava molto volentieri a cantare con i ragazzi delle caramelles.
Mi piaceva molto ascoltare dal balcone quei canti popolari. Ero felice, con le gambe penzoloni e le mani afferrate alla ringhiera, mentre mi guardavo le belle scarpe della domenica. Ricordo la volta in cui mia madre mi aveva lasciato indossare le scarpe nuove, anche se non dovevamo ancora uscire, erano nere e lucide di un modello tipo ballerina. Ogni anno, quando la mattina di Pasqua, per andare a messa, mi mettevo le scarpe primaverili, sostituendole alle tozze ma calde scarpe invernali, ero felice, perché mi sentivo più leggera e a mio agio, forse perché quelle scarpette annunciavano  l'arrivo della primavera.
Mia madre, quando avevo circa dieci anni, decise che ormai ero grande e che dovevo fare parte anch'io del gruppo di cantaires 2, ma da quel momento quella musica popolare che tanto amavo smise di incantarmi. La maestra di canto, la senyoreta3Cristina, era una donna molto magra, il suo viso era sbiadito, come i vestiti che sempre indossava, uno grigio abbottonato fino al collo che alternava con uno celestino più scollato. Usava degli occhiali da presbite, che metteva solo per leggere la musica, altrimenti li teneva legati intorno al collo con un nastro viola. I suoi capelli erano fini e lisci, di un colore indeciso tra il biondo e il cenere, per questo la sua crocchia era sempre spettinata e lei, come un tic, se la sistemava in continuazione. Abitava in una vecchia casa in paese insieme ai genitori anziani e dato che non lavorava, tutti i giorni andava in chiesa a cantare alle messe, era abbastanza gentile ma lunatica e cambiava bruscamente d'umore. Facevamo le prove la domenica mattina dopo la messa, momento nel quale, a noi ragazzi, sarebbe piaciuto andare a giocare. Alcune volte sembrava che non avesse mai gestito un coro perché era come assente e quindi c'era tanta confusione e ognuno cantava a modo suo. Le male lingue del paese dicevano che era innamorata del prete e che per questo non si era mai sposata.
Fin da piccola, ho creduto di essere stonata e anche per questo motivo non trovavo gusto nel canto. Ero timida e mi vergognavo, forse perché la senyoreta Cristina, una delle prime volte in cui partecipavo alle prove, mi aveva corretto scorbuticamente. Eravamo tanti, circa una cinquantina, per questo mi sistemavo, se potevo, nelle ultime file e cantavo senza passione. Il più delle volte muovevo le labbra, facendo finta di cantare. Un'altra cosa che mi dava fastidio era il viaggio in pullman che facevamo qualche domenica dopo Pasqua. Vomitavo appena salivo sull'autobus e durante tutto il tragitto ero seduta davanti con una busta di plastica in mano.
La musica di quella domenica di novembre ha fatto rinascere in me la stessa allegria che sentivo da piccola seduta sul balcone. Mi sono alzata e sono andata a vedere cosa stava succedendo. C'erano cinque musicisti ambulanti che suonavano una fisarmonica, due violini e due chitarre. La musica entrava nelle case e trascinava i vicini alle finestre. Non avevo mai visto nella nostra strada tante persone affacciate mentre sorridevano. Dopo aver suonato due canzoni i musicisti, che dalla parlata mi era sembrato fossero dell'Europa dell'est, ci hanno fatto capire, porgendo i cappelli, che avrebbero gradito qualche offerta. La gente, dalle finestre, ha gettato qualche moneta e subito dopo è rientrata nelle loro case. Io sono rimasta a guardarli mentre mettevano a posto i loro strumenti e le loro cose. Il più giovane di loro, ancora ragazzino, mi ha indicato i pantaloni facendomi capire che avevano bisogno di vestiti.
- Un momento, vado a vedere in casa -  ho detto.
Sono andata in camera e ho trovato nell'armadio una busta con alcuni indumenti ormai in disuso. Ho buttato giù la busta con dei maglioni e dei pantaloni quasi colpendo il più vecchio del gruppo sulla testa. I musicisti erano così contenti che hanno cominciato a suonare un'ultima canzone per me. Alla fine, sempre il più giovane sorridendo mi ha fatto vedere le sue scarpe rotte. Mi sono ricordata, allora, dei caldi stivali di pelle nera foderate di pelo che mi stavano troppo grandi e che non mettevo mai. Sono andata di nuovo verso l'armadio e ho cercato la scatola bianca dove erano riposti. Veder cadere un bel paio di stivali dalla finestra, oltre che rendere felici il ragazzo e me, è sembrata una buona idea perché alcuni vicini, che si erano riaffacciati sentendo di nuovo la musica, hanno cominciato, anche loro, a gettare scarponi, mocassini, stivaletti e scarpe da ginnastica.
I musicisti non avevano né una casa né un lavoro, né l'opportunità di eleggere, come noi, i propri rappresentanti politici, dato che sicuramente erano dovuti emigrare dalla loro terra, ma quel giorno erano felici perché avrebbero potuto indossare le scarpe della domenica.
1  Gruppo corale che con canti popolari antichi annunciavano, percorrendo le strade dei paesi, la resurrezione di Cristo e
    auguravano una buona Pasqua.
2  Cantanti popolari
3  Signorina

Los zapatos de los  domingos
Era un domingo de noviembre el día en que se votaba para elegir el parlamento de Cataluña y ese mismo día también en Italia, país donde yo vivía desde hacía más de treinta años, tenían lugar las elecciones del candidato para guiar del partido democrático.
Decidimos que iríamos a votar por la tarde para no tener que hacer cola, por eso después de un buen desayuno con té, tostadas y mermelada de naranja volví a la cama y estuve leyendo y escribiendo correo electrónico a algunos amigos.
U. se despertó temprano para ir a dar una vuelta en bicicleta con unos compañeros del trabajo, nuestro hijo venteañero madrugó para ir a recoger aceitunas en el campo del dueño del restaurante donde trabajaba y nuestra hija estudiaba en Madrid desde hacia dos años, por lo tanto yo estaba sola en casa y en aquel domingo de finales de noviembre el tiempo transcurría plácidamente.
Improvisamente oí una melodía alegre que provenía de la calle. En seguida me acordé de la música que escuchaba cuando era pequeña sentada en el balcón de la casa natal que mis tatarabuelos habían construido al lado de la iglesia de un pueblecito de la costa catalana.
Los domingo y los lunes de Pascua los chicos de las caramelles[1] con trajes tradicionales pasaban por las calles del pueblo. Algunos músicos con algunos instrumentos los acompañaban y al final del pasacalles uno de ellos arrimaba un largo bastón, en el que encima habían atado un cesto, a los balcones de las casas, para que les ofrecieran alguna peseta.
La iglesia y otras asociaciones culturales del pueblo patrocinaban les caramelles y organizaban luego una excursión para los chicos. Mi hermana, siete años mayor que yo, iba muy contenta cada año a cantar en el coro callejero.
Me gustaba mucho escuchar desde el balcón aquellos cantos populares. Era feliz con las piernas sueltas en el aire y con las manos agarradas a los los barrotes, mientras miraba mis lindos zapatos.
Recuerdo una vez en la que mi madre me había dejado poner los zapatos nuevos a pesar de que no tuviéramos que salir, eran de charol negro y de una forma de bailarina. Siempre que me ponía los zapatos de primavera dejando de lado los gruesos botines “gorila”, esa era la marca, estaba muy contenta porque me sentía  a mi gusto y más ligera o quizás porque aquellos zapatitos me anunciaban que llegaba la primavera
Mi madre a los seis o siete años me envió a las caramelles pues siendo ya mayorcita pensó que podía muy bien hacer parte del grupo de cantaires[2], sin embargo desde entonces aquella música que tanto me gustaba dejó de encantarme.
La maestra de canto, la senyoreta[3]Cristina, era una mujer muy flaca, su tez era descolorida, como lo era su ropa. Llevaba siempre un vestido gris abrochado hasta el cuello que remplazaba muy poco con otro azul claro con un ligero escote. Necesitaba gafas para corregir su vista cansada, que usaba sólo cuando leía y que llevaba colgadas en el cuello con una cinta violeta. Su pelo, de un color impreciso entre el gris y el rubio, era fino, por eso su moño parecía siempre despeinado y ella se lo arreglaba continuamente como si fuera  un tic. Vivía en el pueblo, cerca de la iglesia, con sus padres ya viejos. No había querido buscar trabajo, a pesar del título que obtuvo con mucho esmero en el conservatorio. Solo le gustaba ir cada día a la iglesia a cantar en las misas. Parecía amable con todo el mundo, sin embargo con los chicos del coro cambiaba bruscamente de humor pues era muy lunática.
Ensayábamos los domingos por la mañana después de la misa mayor, momento en el que a los críos nos hubiera gustado ir a jugar. Algunas veces parecía que la senyoreta Cristina no supiese llevar un coro, ya que estaba distraída y como ausente y entonces, como en un gallinero, cada uno cantaba a su manera.
Las malas lenguas del pueblo decían que estaba enamorada locamente del cura y que por eso se había quedado soltera.
Ya de pequeña descubrí que era desentonada y por eso  me divertía tan poco cantando. Era tímida y quizás me daba vergüenza cantar porque la senyoreta Cristina me había regañado una de las primeras veces que fui a los ensayos. Eramos más de cincuenta y yo intentaba ponerme hacia el final y cantaba sin ganas. Muchas veces movía los labios sin cantar. Otra cosa que recuerdo de las caramelles es que después de Semana Santa hacíamos un viaje en autocar. Yo vomitaba al subir al coche y por  todo el recorrido tenía que estar sentada en la primera fila con una bolsa de plástico en las manos.
La música de aquel domingo de noviembre me produjo la misma alegría que sentía cuando de pequeña me asomaba al balcón. Me levanté y fui a ver lo que pasaba. Había cinco músicos que callejeaban tocando un acordeón, dos violines y dos guitarras. La música entraba en las casas y arrastraba a los vecinos hacia las ventanas. Nunca había visto tanta gente en nuestra calle y tantas personas asomadas que sonreían. Al acabar la última canción los músicos, que me parecieron de algún país de Europa oriental, poniéndonos la copa de sus sombreros gastados bajo nuestras ventanas nos decían que podíamos ofrecerles un poco de dinero. La gente empezó a echarles monedas y en seguida volvió a sus quehaceres dominicales. Yo me quedé mirando a los músicos mientras recogían sus cosas y sus instrumentos, hasta que uno de ellos, el más joven, me indicó sus pantalones. Comprendí por el gesto del muchacho que necesitaban ropa.
- un momento voy a ver si encuentro algo, les dije.
Me fui hacia el armario del trastero y busqué una bolsa con ropa que ya no nos poníamos. Les eché el fardo con pantalones, chaquetas y camisas, que rozó la cabeza del más viejo del grupo. Los músicos estaban tan contentos que tocaron otra canción para mí. Al final siempre el más joven con un dedo me indicó el agujero que había en uno de sus zapatos. Me acordé entonces de mis botas negras forradas con pelo, que abrigaban mucho, pero que había llevado poco porque me iban muy grandes. Fui de nuevo hacia el armario para buscar la caja de cartón blanca donde había guardado las botas. Echar los zapatos por la ventana, nos  alegró mucho a mí y al chico y además fue una buena idea, pues algunos vecinos, oyendo la música se habían asomado de nuevo y hicieron lo mismo echando, mocasines, botines y bambas viejas.
Los músicos no tenían ni una casa, ni un empleo, ni la posibilidad de poder ir a votar para elegir a sus representantes políticos, ya que seguramente habían tenido que huir de su tierra, sin embargo aquel día estaban contentos porque iban a poder ponerse los zapatos de los domingos.
[1]   grupo de cantantes que con  cantos populares antiguos anunciaba  la resurrección di Cristo y deseaban a los vecinos 
        una buena Pascua.
[2]   cantantes
[3]   señorita