mercoledì 31 ottobre 2012

Innamoramenti nella metropolitana













Era molto tempo che non ritornavo a Barcelona. Avevo voglia di rivedere la città dove avevo vissuto a metà degli anni settanta, mentre studiavo all'università. Ero seduta sul treno, che mi portava dall'aeroporto a una piccola città della costa settentrionale, dove abitava una mia cara amica, quando ho riconosciuto una coppia di anziani del mio paese natale, la quale si è sistemata accanto a me. Erano la vecchia llevadora1 e suo marito.
Abbiamo fatto il viaggio insieme, che inaspettatamente è diventato molto lungo per un guasto alla linea elettrificata. Seduta sul  consumato vagone guardavo le nuove periferie della città che quasi non riconoscevo e   ascoltavo, prima con svogliatezza e poi con molta attenzione, la voce della vecchia levatrice, che  raccontava brandelli della sua vita, mentre suo marito dormicchiava. Quella che più mi aveva  colpito era stata  la storia del loro innamoramento agli inizi degli anni '30 nella nuova metropolitana di Barcellona,  da poco inaugurata.
Erano anni difficili, era appena nata la seconda Repubblica, la giovane levatrice aveva finito la scuola di ostetricia, lui era arrivato dall'Andalusia da pochi giorni. Era ospite di un fratello, il quale si riteneva molto fortunato per aver trovato un lavoro come muratore nella periferia della città.
Nel vagone in cui la levatrice era seduta con un libro in mano, si erano guardati. Lei aveva pensato che era un bel ragazzo. Lui in piedi, guardando la ragazza col libro in mano, avrebbe dato qualsiasi cosa per farsi leggere un racconto da lei. Subito si rattristò e si vergognò al pensiero di non saper leggere.
Scesero entrambi nella stessa stazione, insieme a un fiume di persone frettolose.
Dopo qualche minuto si trovarono facendo la coda all'Ufficio di collocamento. La Generalitat2 aveva organizzato degli sportelli straordinari per accogliere la valanga di richieste di lavoro.
Vedendola che stava quasi per svenire a causa della calca,  le offrì un po' d'acqua. La fece anche sedere per terre in un angolino, lei tirò fuori dalla borsetta il suo abanico3 il cui fruscio ripetitivo, la rasserenò.
Poi  le diede uno spicchio d'arancia. Il profumo fresco del frutto impregnò la pelle delle loro mani e la loro vita.
Poi  raccontò alla  llevadora che al suo paese faceva il barbiere, ma disse che ormai rimanevano pochi abitanti, solo donne e anziani. Gli uomini erano tutti emigrati verso il Nord.
Allora lei gli spiegò che sarebbe voluta andare a lavorare in un ospedale, per poter aiutare le donne con parti difficili.
Quel giorno non riuscirono ad arrivare davanti allo sportello, ma furono felici lo stesso. Presero la metropolitana insieme e non si lasciarono mai più.
Dopo un po', stanca di aspettare che il treno partisse, anche la vecchia levatrice si era addormentata ed io mentre guardavo il paesaggio urbano immobile e cambiato,  ho ricodato  che  qualche anno prima, una sera mentre i  nostri figli, allora bambini, dormivano e U. seduto sul divano rosso, guardava la televisione o forse leggeva un libro, ho cominciato a scrivere un racconto epistolare sul nostro innamoramento.
La lettera era composta da tanti brevi scritti, come se fosse un diario, dove si mescolavano emozioni lontane e recenti.
Nel corso degli anni avevo  più volte cambiato computer, per questo avevo smarrito il documento che conteneva il racconto e l'unica copia cartacea rimasta doveva essere nascosta da qualche parte in soffitta.
Nella lettera perduta ricordavo a U. le sensazioni che avevo avuto il giorno che ci siamo incontrati.
Mi vedevo seduta ad un tavolino della terrazza del cafè Zurich della Plaça Catalunya di Barcelona. Era un pomeriggio di novembre, a metà degli anni settanta.
Ancora non avevo scoperto l'effetto benefico delle infusioni, quindi prendevo una cioccolata calda. Mentre afferravo la tazza con le due mani ho visto spuntare, in fondo alla fila di tavolini, la figura snella di U.
Pensai che sicuramente non lo avrei mai più rivisto, questa sensazione carica di nostalgia mi riportò il ricordo di un treno in lontananza che spariva nella notte.
Aspettavo delle amiche, le quali erano in ritardo. Appena mi sono alzata per andare a telefonare, ho visto la sua testa nera e riccioluta che si avvicinava al mio tavolino.
Era con un ragazzo moro, non tanto alto, anche lui italiano, un aspirante poeta, molto chiacchierone, che vendeva le sue poesie d' amore per pochi spiccioli.
Le mie amiche si sono sedute con noi, nuove sedie sono state aggiunte via via che arrivavano altre persone conosciute, formando così un bel gruppo, allegro e chiassoso. Seduto accanto a me c'era sempre lui, i suoi occhi vispi mi guardavano, il suo naso grande ed elegante inspirava lentamente gli odori nuovi di quella città, le sue labbra carnose, scandendo poche parole, mi hanno fatto capire, un po' in francese e un po' in italiano, che mi invitava a Firenze, dove abitava con altri studenti.
Da non rivederlo mai più ad essere accolta nella sua casa c'era una bella differenza, pensai.
Quella sera abbiamo preso tutti insieme la metropolitana.
Nel vagone, gremito di gente che tornava a casa dal lavoro, lui mi guardava intensamente mentre mi diceva Ciao. Pensavo che quella parola volesse indicare un saluto di addio e temevo che lui sarebbe sceso alla fermata successiva. Fui felice quando le porte si aprirono e lui rimase sorridente di fronte a me con il braccio alzato, appeso nella maniglia. Cominciava così il nostro innamoramento nella linea due della metropolitana di Barcellona.
Il treno cominciò a muoversi verso la costa settentrionale. I due vecchietti dormivano con le teste appoggiate una sull'altro. Col sguardo rivolto al finestrino pensavo a tutte quelle storie intrecciate e sentivo un gran benessere, perché mi vedevo seduta su un altro treno, quello che correva portando via le nostre vite. Quel treno  aveva percorso una lunga strada,  aveva  visto nuove terre,  aveva  permesso a  molte  persone di salire, altre erano scese, ma noi due eravamo ancora seduti insieme nel nostro vagone guardando, a volte con timore, altre con allegria, ma sempre con voglia di andare avanti, nuovi paesaggi.

1levatrice
2Il Governo della Catalogna
3Ventaglio

domenica 14 ottobre 2012

La trasnochadora- la nottambula












La imagen de aquella mujer  echada en el sofá rojo me  recordó a mi amiga Filomena. 
A principios de los años setenta Filomena era una adolescente alegre y  despreocupada. A veces se  ponía triste pensando en su nombre tan rebuscado, que  había heredado de su abuela paterna y que le tocaría llevar a cuestas toda su vida. Las amigas la llamaban Filo y muy pronto descubrió que le habían puesto una cantilena:
Filo- filo – mena
mena, mena, nena 1
nena,  nena, mona 2
Filo- filo – mona
Cuando sus compañeras querían verla rabiar la llamaban Filomona.
Sus enfados duraban poco, porque se olvidaba de ello apreciando el gusto de las  pequeñas cosas. Le encantaba tomar el sol invernal en el patio del caserón donde su  familia vivía desde  hacía muchas generaciones. Mientras los tímidos rayos de sol calentaban su cara, limpiaba su bicicleta. Con el pincel empapado de aceite mojaba los rayos de las ruedas sacando la grasa y la suciedad que el tiempo había acumulado. Filomena sentía  un bienestar enorme y deseaba limpiar y arreglar  toda su vida  viejas bicicletas en algún  rincón soleado del  planeta.
Cada día después del almuerzo, antes de volver  a la escuela, pues en la España de aquellos años los estudiantes  íbamos  tres horas por la tarde al colegio, se  escondía en   aquel  rincón del patio donde tocaba el sol  a primeras horas de la tarde. Cerraba los ojos y sólo  deseaba que la tensión, la infelicidad, el ansia, la tristeza y el dolor de los demás no contagiasen su ánimo plácido y positivo.
Su  familia era normal: el padre muy trabajador, la madre  siempre  delicada de salud, el abuelo  a menudo se  apartaba  en el jardín para apaciguar su dolor, porque  desde que se quedó  viudo añoraba noche y día a su amada esposa, la hermana mayor  cada dos por tres se enfadada y reñía con la madre y su hermanito pequeño era todo un bicho.
Como muchos adolescentes se sentía distinta a los demás, no solo por arrastrar un nombre antiguo y raro, sino porque cuando salía con  la pandilla de amigos y amigas  a menudo extrañaba  su mundo interior. Entonces se entretenía observándolos como si estuviera flotando  a algunos metros por encima de sus cabezas. Quizás ella  aún era infantil respecto a sus amigas tan desarrolladas y con ganas de sacarse un novio.  Filo  a los quince años fue la última que se volvió mujer.
Poco a poco todas las chicas del barrio empezamos a salir los sábados, primero por la tarde y luego por la noche. Todo el mundo deseaba  trasnochar y Filo en aquel   entonces  comprendió  que no le gustaba  dejar  que el  tiempo nocturno se fuera  de aquella manera. 
Cuando de madrugada  nos hallábamos con el grupo de amigos de siempre,  todos estábamos muertos de sueño, sin embargo la mayoría, anhelaba robar  obstinadamente las  horas a la oscuridad, quedándose en el local musical de turno. La  cabeza de Filomena  en cambio se alejaba  y volvía a su viejo oficio de reportera, volaba unos metros sobre nosotros y empezaba a observar todos los detalles y movimientos de la gente del local y luego los dejaba depositados en su memoria.
No quería que sus amigos pensaran que no estaba a gusto con ellos, por lo tanto esperaba a que se cansaran y que alguien dijese:
 -Vayámonos.
Otras noches  no aguantaba la pesadumbre de la  madrugada  y se iba  a casa.
Algunas veces yo regresaba con ella, pues vivíamos bastante cerca. Andando, ya en los primeros pasos, sentía un poco de remordimiento por haber dejado a los amigos, sin embargo  poco a poco  aquellas momentos se volvían mágicos para mi.  Era  emocionante pasear  por las calles desiertas del pueblo con Filo y luego pararse  bajo el farol de la plaza de la iglesia y escuchar su voz. Recuerdo que  hacía unas largas pausas y yo entonces podía percibir el ruido de la noche. Mi amiga  me contaba su mundo interior a través de todo lo que había observado desde arriba, mientras nosotros tocábamos con los pies al suelo. Yo le decía  que lo  escribiese todo,  pues eran  bellas  sensaciones. Ella siempre repetía que no sabía  escribir, que solo le gustaba mirar y escuchar.
A lo largo de toda mi vida he seguido viendo escenas en la que todos se obstinaban  en robar horas a la noche, pero la gente más trasnochadora que  había conocido, habían sido los invitados de una una pareja italo-alemana, que vivía en una casa de campo cerca de la nuestra.
A finales de los ochenta en el inmenso patio de nuestros amigos se daban muchas fiestas a las que a menudo nos invitaban.
Las Tertulias en su casa  empezaban durante  la sobremesa, con  interminables charlas, seguían  canciones de Guccini, Batttisti e De Andrè  tocadas a  la guitarra y  cantadas a coro, luego bajo una  suave música  de fondo empezaban los  juegos de mesa, el más  popular era el  backgammon.  La sesión terminaba  al amanecer, cuando con una  voz ronca,  que apenas se oía, pues las ondas sonoras tenían que transmitirse  a través de una densa  nube de humo de tabaco que cubría el inmenso salón, el anfitrión decía:
- Ha llegado la hora de acostarse, yo me voy a dormir.
Cuando la mayor parte de los invitados  jugaba yo  me sentaba delante del hogar. Cada vez, me llamaba la atención  aquella mujer bajita y morena, que  medio yacía en un pequeño sofá rojo al lado de la chimenea. Nunca participaba en los juegos. Con una copa de vino en una  mano y con la otra un cigarrillo siempre encendido, daba la impresión de que estuviese en letargo, pues parecía apática y ausente.
Aquella noche me acerqué a la mujer del  sofá rojo.
Al cabo de mucho rato me miró  y me dijo:
- Tengo sueño.
- ¿Por qué no te acuestas? Le  pregunté.
- No lo sé, es como un vicio, empiezas un día trasnochando y no logras dejarlo.
1 bambina
2. scimia

La trasnochadora1
L'immagine di quella donna sdraiata sul divano rosso mi aveva ricordato la mia amica Filomena.
All'inizio degli anni '70 Filomena era un'adolescente allegra e spensierata. A volte, quando pensava al suo nome, poco comune ereditato dalla nonna paterna e che le sarebbe toccato portare tutta la vita, diventava triste. Le sue amiche la chiamavano Filo e molto presto aveva scoperto che le avevano dedicato una cantilena:
Filo-filomena
mena, mena,  nena 2
nena, mena, mona 3
Filo - filo - mona
Quando le sue compagne volevano farla arrabbiare la chiamavano Filomona.
Le duravano poco le arrabbiature e si dimenticava presto della cantilena nell'apprezzare le piccole cose della vita.
Le piaceva molto prendere il sole invernale nel cortile della vecchia casa dove la sua famiglia abitava da molte generazioni. Mentre i timidi raggi di sole le riscaldavano il viso, puliva la sua bicicletta. Con un pennello inzuppato di olio bagnava i raggi delle le ruote, levando il grasso e la sporcizia che il tempo aveva accumulato. Filomena sentiva un gran benessere e desiderava pulire ed accomodare tutta la sua vita vecchie biciclette in un angolino assolato del pianeta.
Tutti giorni dopo pranzo, prima di ritornare a scuola, dato che in quei tempi in Spagna gli scolari andavano tre ore il pomeriggio a lezione, si nascondeva nel suo angolino del cortile dove batteva il sole durante le prime ore del pomeriggio.
Chiudeva gli occhi e solo desiderava che la tensione, l'infelicità, l'ansia, la tristezza e il dolore degli altri non contagiassero il suo animo leggero e positivo.
La sua famiglia era normale: il padre era un gran lavoratore, la madre sempre di salute delicata, il nonno spesso si allontanava nel giardino per placare il dolore che sentiva pensando alla sua amata sposa morta da poco, la sorella maggiore litigava sempre con la madre e il fratello piccolo era molto vivace.
Come molti adolescenti si sentiva diversa, non solo per il fatto di trascinare un nome così antico e poco comune, bensì perché quando usciva con il gruppo di amici spesso si sentiva lontana da loro.
Allora si fermava a osservarli come se fosse volata qualche metro al disopra le loro teste. Forse lei era ancora infantile in confronto alle sue amiche ben sviluppate e con una gran voglia di trovare un fidanzato. Filo ai quindici anni era stata l'ultima a diventare donna.
Lentamente noi ragazze del quartiere abbiamo cominciato a uscire il sabato, prima il pomeriggio e poi la sera. Tutti volevano fare tardi la notte e fu allora che Filo capì che non amava lasciare che il tempo notturno se ne andasse in quella maniera.
Quando, all'alba, ci ritrovavamo insieme gli amici di sempre, eravamo tutti stanchi, ma la maggior parte desiderava rubare ostinatamente le ore all'oscurità rimanendo nel locale di turno. La testa di Filomena invece si allontanava e ritornava al suo mestiere di reporter: volava sopra di noi e cominciava ad osservare i dettagli e i movimenti de la gente del locale e poi li lasciava depositare nella sua memoria.
Non voleva che i suoi amici pensassero che non stava bene insieme a loro, quindi aspettava che si stancassero e qualcuno dicesse:
 -Andiamocene.
Altre serate non sopportava più la pesantezza del crepuscolo e se ne andava a casa.
Qualche volta io ritornavo a casa con lei, dato che abitavamo abbastanza vicino.
Mentre facevo i primi passi mi sentivo un po' in colpa per aver lasciato gli amici, ma dopo poco quei momenti diventavano magici per me. Era emozionante passeggiare per le strade deserte del paese con Filo e poi fermarsi sotto la luce di un lampione della piazza della chiesa e ascoltare la sua voce. Ricordo che faceva delle lunghe pause e nel silenzio ascoltavo il rumore della notte.
La mia amica mi raccontava il suo mondo interiore attraverso le cose che aveva osservato dall'alto, mentre noi toccavamo con i piedi per terra. Io le dicevo di scrivere tutto, poiché erano delle belle sensazioni. Filo mi ripeteva sempre che non sapeva scrivere e che solo le piaceva osservare e ascoltare.
Lungo la mia vita ho continuato a vedere scene nelle quali le persone si ostinano a rubare ore alla notte, ma la gente a cui piaceva di più fare le ore piccole erano gli ospiti di  una coppia italo-tedesca, che viveva in una casa colonica vicino alla nostra.
Alla fine degli anni ottanta nell'immenso cortile dei nostri amici si facevano molte feste alle quali ci invitavano spesso.
Le serate nella loro casa cominciavano a tavola con delle lunghe chiacchierate, poi seguivano  le canzoni di Guccini, Battisti e De Andrè suonate alla chitarra e cantate in coro, poi con una soave musica di fondo si dava inizio ai giochi da tavola, quello più popolare era il backgammon. La serata finiva all'alba, quando con la voce rauca, che appena si sentiva, dato che le onde sonore dovevano passare attraverso una densa nube di tabacco che ricopriva l'immenso salone, l'anfitrione  diceva:
- È arrivata l'ora di andare a letto.
Spesso mentre gli altri giocavano mi sedevo di fronte al camino. Ogni volta mi richiamava l'attenzione una minuta donna mora, che era quasi sdraiata su un divanetto rosso accanto al caminetto. Non partecipava mai ai giochi. Con una mano teneva un  calice di vino e con l'altra una sigaretta sempre accesa, sembrava che fosse in letargo, perché era apatica e come assente.
Quella notte mi sono avvicinata alla donna che giaceva nel divano rosso.
Dopo poco mi ha guardato e mi ha detto:
- Ho sonno.
- Perché non vai al letto?, le ho chiesto
- Non lo so, è come un vizio, cominci una notte a fare le ore piccole e dopo non puoi smettere di farlo.
1nottambula
2bambina
3scimmia


venerdì 5 ottobre 2012

Vuole comprarmi una poesia?- ¿Quiere comprarme una poesía?


Era più di trenta anni che nessuno mi faceva quella domanda:
- Vuole comprarmi una poesia?
Ho alzato gli occhi dal giornale che stavo leggendo, seduta alla stazione di Firenze, mentre aspettavo il treno per Livorno.
La voce proveniva da un uomo sessantenne non molto alto, i suoi lineamenti erano delicati, ma il viso era profondamente scolpito a causa della sua magrezza. I capelli erano brizzolati e piuttosto spettinati, ma erano soprattutto gli indumenti un po' sgualciti che indossava a dargli un’ aria un po' trasandata. Il suo sguardo vispo mi supplicava di ascoltarlo.
Con una mano mi ha porto un libricino azzurro, che aveva estratto da un grande pacco che sosteneva con fatica con l'altro braccio.
- Oggi ancora non ho venduto niente, per favore mi compri la raccolta delle mie poesie.
Ascoltando quella frase mi sono ricordata delle parole che Salvatore, un ragazzo siciliano, mi aveva rivolto in un pomeriggio autunnale del lontano 1976, mentre ero seduta ad un tavolino della terrazza del caffè Zurich nella plaza Catalunya de Barcelona.
- ¿Por favor, quieres comprarme una poesía de amor? 1
Ho sentito annunciare il treno per Livorno, quindi la mia mente è ritornata alla stazione di Firenze. Ho dato dei soldi al poeta e ho preso il suo libricino azzurro, prima di dirigermi verso il binario giusto.
Il treno all'inizio era quasi vuoto ma lentamente si era affollato di viaggiatori che andavano all'aeroporto di Pisa o al mare. Nel mio posticino, stretta stretta tra le grandi valige di una coppia di simpatici ragazzi stranieri, ho cominciato a leggere i versi del poeta di strada.
Mentre leggevo le semplici e commoventi strofe del quaderno azzurro, ho ripensato a Salvatore quel ragazzo che era insieme a U. a Barcellona il giorno in cui ci siamo incontrati.
Salvatore era piccolo di statura con un bel viso incorniciato da folti capelli ricci. I suoi indumenti erano chiari: una camicia lunga con dei laccetti al collo e un paio di pantaloni larghi alla maniera hippy. La sua carnagione scura gli dava un’ aria esotica.
Accanto a lui silenzioso c'era U., il quale mi ha subito colpito perché era alto e bien plantado2 , indossava una giacca di camoscio, una camicia a quadretti bianchi e verdi e dei pantaloni jeans un po' svasati come andavano all'epoca.
Erano una coppia bizzarra, forse per questo mi avevano incuriosita quando si avvicinarono al mio tavolo.
- Páganos un cafè y te regalo una poesía3, disse il poeta vedendo che la prima domanda che mi aveva rivolto non aveva avuto risposta.
Non so dire come mai accettai, ma ricordo che si sedettero subito al mio tavolo. Quel pomeriggio parlai a lungo con U., il quale dopo qualche giorno si trasferì da me, nell'appartamento che condividevo con altre studentesse. Il poeta siciliano sparì dalle nostre vite così velocemente come era entrato, mentre in quelle settimana di novembre avveniva il nostro innamoramento.
Che ne sarà stato di Salvatore? Pensai.
Ho sistemato bene le valige, che rischiavano di cadermi addosso e ho ripreso la mia lettura.
Quasi tutti i versi del libriccino azzurro erano d'amore ed erano molto tristi perché raccontavano la storia del poeta nel periodo in cui era stato rinchiuso in un manicomio.
Via via che leggevo ricostruivo la sua vita.
Aveva amato una sola donna, che aveva conosciuto nell'ospedale psichiatrico. Aveva perso le sue tracce e adesso voleva ritrovarla.
Adele, così si chiamava la sua amata, era una giovane donna tormentata dai sensi di colpa. La madre si era suicidata quando era piccola e lei pensava di essere stata la causa di quella disgrazia.
Suo padre, un avvocato romano, molto distinto, ma anche lui distrutto dalla morte della moglie, cercò di curare il mal di vivere delle figlia, con affetto e amore fino al giorno in cui morì d'infarto, quando era ancora giovane.
Adele si dovette trasferire a Firenze, dove fu affidata a due perfide zie paterne, che dopo pochi mesi la fecero rinchiudere nel manicomio della città. Passarono gli anni e le zie dichiararono che la ragazza non era capace né d'intendere né di volere, quindi non la fecero più uscire da quella prigione.
La ragazza triste leggeva e scriveva sempre su un quadernino azzurro seduta al sole nel cortile dell'ospedale, tra i grandi padiglioni.
Il poeta la guardava da lontano ed era molto attratto da quella giovane donna misteriosa, ma non poteva e non sapeva come avvicinarsi a lei.
Un giorno le scrisse una lettera e gliela lasciò in una crepa del muretto del cortile, dove lei di solito si sedeva.
La ragazza e il poeta cominciarono una lunga corrispondenza che durò due anni e che s'interruppe pochi giorni prima che la legge Basaglia abolisse i manicomi, alla fine degli anni settanta.
Il poeta uscì dall'ospedale un giorno di primavera con il solo obbiettivo di trovare Adele.
Le ultime poesie parlavano della lunga ricerca dell'amata che lo portavano a trascorrere lunghi periodi a Firenze, che si alternavano con altri nella capitale.
- Dove sarà Adele? Sarà guarita dalla sua malattia? Si chiedeva ossessivamente il poeta.
Per fare arrivare alla sua amata le sue parole, regalava le poesie ai passanti nelle città.
- Chissà se un giorno Adele potrà leggere le mie parole? Si diceva tra e sé.
Per vivere e per avere un po' di soldi, necessari per la ricerca della sua amata, vendeva poesie, come aveva fatto con me quel giorno alla stazione di Firenze.
Stavo arrivando a Livorno nel momento in cui ho letto il nome e il luogo di origine del poeta : Salvatore Scataro nato a Siracusa nel 1952.
Entrambi i poeti avevano lo stesso nome ed erano siciliani.
Potrebbero essere la stessa persona, pensai.
Scendendo dal treno ho visto la mia amica, Elena, che mi aspettava con il suo cagnolino per andare insieme all'isola d'Elba, dove ci aveva invitati a passare un lungo fine settimana nella vecchia casa di famiglia di Rio Marina. U. sarebbe arrivato il giorno dopo portandosi dietro la bicicletta.
Abbiamo trascorso insieme delle belle giornate al mare e il pensiero dei due poeti mi ha fatto rivivere i tempi magici del nostro innamoramento.
Il viaggio di ritorno dall'isola dell'Elba a Livorno con la mia amica è stato rovente e faticoso per il traffico e per il cane che in macchina ha sempre abbaiato. Quando mi sono seduta in treno a Livorno, ho ripensato ai due poeti.
Dovevo rintracciare Salvatore, quello che vendeva i libriccini azzurri alla stazione di Firenze e scoprire se era lo stesso poeta che mi aveva offerto una poesia a Barcellona.
Sono scesa dal treno impaziente e quasi emozionata, ma di lui non c'erano tracce.
Subito dopo sono andata dal giornalaio a domandargli se aveva notizie dell'uomo che in quei giorni vendeva libriccini azzurri. Mi ha detto che quella mattina lo aveva visto salire su un treno. Mi ha poi raccontato che si faceva vivo ogni tre o quatto mesi e che sempre arrivava contento con la speranza di trovare la sua amata, ma che dopo qualche settimana se ne andava a Roma triste e scoraggiato. Poi all'improvviso quando nessuno pensava più a lui, si sentiva di nuovo la sua voce che diceva:
- Vuole comprarmi una poesia?

1Per favore, mi puoi comprare una poesia d'amore?
2Di bella presenza ed elegante
3Offrici un caffè e ti regalo una poesia


¿Quiere  comprarme una poesía?
Hacía más de treinta años que nadie me preguntaba:
- ¿Quiere comprarme una poesía?
Levanté los ojos del periódico que estaba leyendo, sentada en la estación de Florencia, mientras esperaba el tren para Livorno.
La voz procedía de un hombre bajito de unos sesenta años, sus facciones eran delicadas, pero su cara estaba profundamente esculpida por su flaqueza, el pelo era cano e iba despeinado, pero seguramente era su ropa arrugada lo que le daba ese aire de dejadez. Su mirada vivaracha me imploraba que le escuchara.
Con una mano derecha me ofreció un diminuto libro azul, que sacó de un inmenso paquete que  su brazo irquierdo
aguantaba con esfuerzo.
- Hoy no he vendido nada, por favor cómprame la recopilación de mis poesías  
Escuchando aquella frase me acordé de las palabras que Salvatore, un chico siciliano, había pronunciado una tarde de otoño del lejano 1976, mientras estaba sentada en una mesita de la terraza del café Zurich en la plaza Catalunya de Barcelona.
- ¿Por favor, quieres comprarme una poesía de amor?
Oí que anunciaban el tren para Livorno, por  lo tanto mis pensamientos volvieron a la estación de Firenze. Di algo de dinero al poeta y cogí su pequeño libro, antes de dirigirme al andén.
El tren al principio estaba casi vacío, pero lentamente se fue llenando de pasajeros que iban al aeropuerto de Pisa o a la playa. En mi asiento, acurrucada  entre las grandes maletas de una  joven pareja extranjera muy simpática, empecé a leer  los versos del poeta callejero.
Mientras leía las simples y conmovedoras estrofas del libro azul, pensé de nuevo en Salvatore, aquel chico que en Barcelona iba con  a U. el  día en que nos conocimos.
Salvatore era bajito, tenía una linda cara enmarcada por una  melena rizada. Su ropa era de color marfil: una camisa larga con lazos en el cuello y unos pantalones anchos de estilo hippy. Su tez morena le daba un no sé que de  exótico.
A su lado iba silencioso U.,  quien noté en seguida porque era un chico alto y bien plantado, llevaba una chaqueta de ante, una camisa de cuadros verdes y blancos y unos pantalones tejanos un poco acampanados como iban de moda en aquella época.
Eran una pareja un poco rara, quizás por eso estimularon mi curiosidad cuando se acercaron a mi mesa.
- Páganos  un café y te regalo una poesía, me dijo el poeta viendo que su primera pregunta  no había obtenido respuesta.
No se decir porque acepté, pero recuerdo que los dos se sentaron en seguida en mi mesa. Aquella tarde hablé mucho con U., quien al cabo de pocos días se trasladó a vivir al piso que yo condividía con otras chicas estudiantes. El poeta siciliano salió de nuestras vidas tan deprisa como había entrado, mientras  en aquella semana  estaba naciendo nuestro enamoramiento.
- ¿Qué habrá sido de Salvatore? pensé
Acomodé bien las maletas que  estaban a punto de caerme encima y me puse de  nuevo a leer.
Casi todos los versos del  pequeño libro azul eran de amor y  muy tristes porque contaban la historia del poeta en la época en que había estado encerrado en un manicomio.
Mientras leía reconstruía su vida.
Había amado a una sola mujer, quien había conocido en el  hospital psiquiátrico. Había perdido su rastro y ahora deseaba encontrarla.
Adele, ese era su nombre, era una chica atormentada por el sentimiento de culpabilidad. Su madre se había suicidado cuando era pequeña y  pensaba que era ella la causa de la desgracia. Su padre era un notable abogado romano, también él muy afligido por la la muerte de su esposa, pero intentó curar  el mal de vivir que sufría su hija, hasta que un día murió de infarto, cuando aún era joven.
Adele tuvo que trasladarse  a Firenze en la casa de dos pérfidas tías paternas, quienes al cabo de pocos meses la encerraron en el hospital psiquiátrico de la ciudad declarando que la sobrina no era capaz de razonar y ni de actuar,  no la dejándola salir más de aquella prisión.
La muchacha triste leía y escribía,  en un  pequeño cuaderno azul,  sentada al sol en el patio del manicomio, entre los grandes pabellones.
El poeta la miraba desde lejos y se sentía muy atraído por aquella mujer tan misteriosa, pero no podía y ni sabía como acercarse a ella.
Un día le escribió una carta y se la dejó en una grieta de la pared del patio, cerca de donde ella solía sentarse.
La chica y el poeta empezaron una larga correspondencia que duró más  de  dos años y que se interrumpió pocos días antes de que la ley Basaglia aboliera los manicomios, a finales de los años setenta.
El poeta salió de aquel calabozo un día de primavera con el solo objetivo de encontrar a Adele.
Las últimas poesías hablaban de larga búsqueda de su amada, lo que  le  llevaba a pasar largas temporadas en Firenze y  otras en la capital.
- ¿Dónde estará Adele? ¿Se habrá curado de su enfermedad? Se preguntaba con obsesión  el poeta.
Para que sus palabras llegaran a su amada, regalaba poesías a los transeúntes de la ciudad.
- ¿Quién sabe si un día Adele podrá leer mis palabras? Se decía a sí mismo.
Para vivir y para conseguir un poco de dinero, necesario para buscar a su amada, vendía poesías, como aquel día en la estación de Firenze.
Estaba a punto de llegar a Livorno cuando leí el nombre y el lugar de origen del poeta: Salvatore Scataro nacido en  Siracusa en 1952.
Los dos poetas eran  sicilianos y tenían el mismo nombre, desgraciadamente deconocía el apellido del que conocí en Barcelona, sin embargo podrían ser la misma persona, pensé.
Bajando del tren vi a mi amiga Elena, que me estaba esperando con su perrito para que juntas fuéramos a la Isla d'Elba, donde nos había invitado a pasar un largo fin de semana en el viejo caserón familiar en Rio Marina.
U. llegó al día siguiente llevando consigo su bicicleta.
Pasamos  juntos unos plácidos días en la playa y pensando en los dos poetas reviví los tiempos mágicos de nuestro enamoramiento. U, se fue un día antes con su bicicleta.
Il viaje de vuelta hacia Livorno con mi amiga, fue agotador por el calor,  el tráfico y  los ladridos incesantes del perrito.
Cuando finalmente en Livorno me senté en el tren pensé de nuevo en los dos poetas.
Tenía que encontrar a Salvatore, el que vendía los libros azules en la estación de Firenze y descubrir si era el mismo poeta que me había ofrecido una poesía en Barcelona.
Bajé del tren impaciente y casi emocionada, pero de él  ni rastro.
En seguida fui a preguntar al vendedor de periódicos si tenía  noticias del hombre que vendía pequeños libros azules. Me dijo que aquella mañana lo había visto subiendo a un tren. Me contó también que aparecía cada tres o cuatro meses y que llegaba siempre contento con la esperanza de encontrar a su amada, pero que al cabo de algunas semanas se iba a Roma triste y decepcionado.
Luego improvisamente, cuando ya nadie se acordaba de él, se oía de nuevo su voz que decía:
- ¿Quiere comprarme una poesía?